9 Febbraio 2016
Di
Federica Verona

Cooperative di abitanti, studi di fotografia, collettivi di sarte, e una biblioteca di quartiere. A Stadera

Chiesa Rossa, Stadera

Ripartiamo da dove eravamo rimasti. Il teatro Ringhiera si trova esattamente nell’edificio dove ci accoglie Pasquale La Torre, il direttore della Biblioteca Chiesa Rossa. Pasquale ci fa entrare nell’edificio che l’ultima volta avevamo visto di sera e ci conduce verso una stanza piena di scaffali e libri, dove il profumo della carta è forte. Ci sediamo attorno ad un tavolo e inizia il racconto. Il posto dove ci troviamo è attualmente utilizzato come deposito delle biblioteche di pubblica lettura del Comune di Milano e non ha una vita aperta al territorio attualmente. La cosa interessante, però, è che ci troviamo nella sede in cui è stata aperta la prima biblioteca del quartiere. Dal 1978 fino al 2000 è stata la sua sede e rappresenta quel pezzo di storia. All’epoca era stato appena stato completato l’edificio che doveva ospitare il consiglio di zona 15. Già, perché le zone da 18 sono diventate 9 e la zona 15 è diventata la 5. Gli uffici sono ora concentrati tutti in via Tibaldi, quindi i servizi dell’edificio sono molti di meno ora. E’ ancora attivo il servizio di anagrafe e il teatro Atir. L’edificio era stato completato con questo grande spazio, la Piana, che doveva diventare la nuova piazza del quartiere dove si affacciavano tutti i servizi di un tempo: La Asl, la banca, la posta, il bar, un grande magazzino su due piani e che ora è un supermercato a piano terra e una rivendita di articoli cinesi al piano superiore. Tutti i servizi della zona erano concentrati lì e l’esperimento di progettazione dello spazio pubblico sembrava riuscito, c’era grande frequentazione e si era presa l’abitudine di uscire dal piano stradale del traffico per entrare in quello spazio più protetto e a misura d’uomo. La biblioteca era molto frequentata e nel 1982 rimaneva aperta fino alle 23:00 e la usavano molto gli studenti la sera. Alla fine degli anni 80, primi 90, c’è stato l’inserimento nello spazio, utilizzato ora dal teatro, di un multiuso gestito direttamente dal Comune.

Dagli anni 80 agli inizi del 90, però, all’Asl hanno aperto un centro per la distribuzione del metadone. Hanno così iniziato ad accorpare lì i tossicodipendenti in cura nei dintorni, raggiungendo il migliaio di utenti. A ore precise c’era la distribuzione del metadone con circa 300 persone in coda che attendevano. Una percentuale piccola di questi era senza lavoro, senza casa, e così spesso stazionavano nella Piana 24ore su 24. La piazza progressivamente si è svuotata perché nessuno aveva il coraggio di frequentarla più, e pian piano, se si volevano utilizzare i servizi del Comune, si andava in via Tibaldi rimanendo sullo stesso tram.

Negli anni 90 è stata fatta la ristrutturazione della cascina di Via Savio e del parco, zona di degrado. Durante la ristrutturazione hanno pensato di inserire un servizio che fosse aperto tutti i giorni dal mattino alla sera e che fosse frequentato da persone normali. Hanno quindi pensato di spostare lì la biblioteca per recuperare un po’ di lettori dato che il teatro non veniva più utilizzato e tutti i servizi , tranne la Asl, si erano spostati.

Il teatro è stato dato in gestione ad Atir da più di 10 anni e, lo spazio in cui Pasquale ci ha accolto, lo hanno tenuto come deposito chiuso al pubblico. Attualmente è un deposito dove loro tengono i libri che vengono richiesti dalle biblioteche sul territorio e che danno in giro posta. Inoltre da qualche tempo hanno aperto un ulteriore servizio perché a Milano ci sono molte persone che posseggono gran collezioni di libri e non sanno cosa farsene e sono sempre alla ricerca di qualcuno a cui lasciarli. Dall’altra parte, poi, ci sono realtà che hanno invece bisogno dei libri come le case e di riposo, le carceri o le scuole, così fanno da tramite tra chi ha bisogno di liberarsi dei libri e le associazioni a cui servono. Il servizio è gratuito ,con un database aggiornato. Gli chiediamo del ruolo delle biblioteche in città, se funzionano. Pasquale ci parla di una totale trasformazione. L’editoria ha introdotto nuove tecnologie e il fatto che in rete tutto si possa trovare sembra rendere inutile la presenza dei giornale e dei periodici. Ovviamente non è così, dice, perché bisognerebbe fare riferimento all’autorità dell’informazione. La responsabilità di scrittura di un libro è molto più alta rispetto alla scrittura di alcuni articoli di un blog. Loro hanno anche pensato che i libri potessero diventare solo digitali con una libreria aperta 24 su 24, con meno costi sul personale e di gestione hanno pensato fosse la strada che stavano imboccando editori e biblioteche ma poi non è ancora così. Persino Amazon ha deciso di aprire una libreria vera, ma questo non esclude la trasformazione lenta delle biblioteche in luoghi differenti, luoghi di socialità dove persone che cercano trovano risposte. Infatti oggi il gruppo di lettura non è solo funzionale al “leggere insieme” ma è un’occasione per conoscersi, certo, in forma diversa dalle social street ad esempio. La biblioteca sta ampliando i suoi servizi con l’obiettivo dello stimolo alla socialità. Tutte le funzioni svolte dall’operatore ora sono messe in mano all’utente, per esempio, e questa è la direzione nei prossimi 10 anni. Prenotare libri attraverso il cataolgo on line è già un’azione che può fare il singolo utente, non l’operatore. L’altra cosa interessante è che le biblioteche danno spazio alle associazioni facendo un minimo di selezione, ovvaimente, ma se qualcuno vuole fare mostre proporre incontri, in biblioteca è a disposizione. Di fatto, ci dice Psquale che l’attività culturale delle biblioteche oggi è quella di accompagnare le persone che vogliono fare attività, cercando di ridurre gli investimenti economici e mettendo a disposizione spazi e risorse. Tolto il costo del personale e lo spazio, tutte queste attività sono a costo zero. Gli investimenti economici sono bassi.

Gli chiediamo di parlarci del quartiere. Ci spiega che c’è ha il quartiere ha questa doppia personalità. La ex zona 15, che partiva da viale Tibaldi e si estendeva verso Gratosoglio, era un quartiere denso di case popolari degli anni 50 nella prima parte e in fondo vedeva la presenza dei quartieri dormitorio. C’era una fetta verde che ancora viene usata per le coltivazioni,ai suoi bordi era popolata dalla prima immigrazione del sud dagli indigenti . Quelle persone oggi hanno 80 anni e il quartiere è invecchiato molto. Anche se piano piano stanno arrivando le giovani coppie che hanno bimbi piccoli. In zona sono stati costruiti negli anni edifici diversi che in qualche modo hanno attratto un nuovo mercato. Il quartiere è ambivalente perché le case popolari di Gratosoglio sono in netta contrapposizione con le case della media borghesia più vicine. Il vantaggio nel quartiere è la presenza del parco del Ticinello e del Parco Sud. Inoltre è una zona comoda per la vicinanza con la tangenziale e per la presenza della metropolitana che, sicuramente, un po’ ha alzato i prezzi al metro quadro degli alloggi.

Se guarda ii frequentatori della biblioteca vede dei ventisettenni, poi un calo nel livello di età e una ripresa verso i 45 e 60 anni, poi si mantiene costante, ma bassa, la curva fino agli 80 anni. I frequentatori sono persone non occupate spesso sono studenti o, dopo i 45 anni, portano i bambini per i compiti. Poi c’è lo zoccolo dei lettori forti che non muta. L’indice di penetrazione delle biblioteche di Milano sulla popolazione, ci spiega, è intorno al 6 o 8 % alla biblioteca Chiesa Rossa sono circa 4000 gli iscritti. Natualmente le biblioteche in zona sono tre e complessivamente si arriva intorno ai 10000 iscritti su un bacino di utenza di circa 80000 persone.

Ci racconta che quando la Biblioteca si è trasferita nella nuova sede, iniziando di nuovo la sua attività che per radicarsi ha bisogno circa di 10 anni, un po’ le cose sono cambiate. Ma non è stato facile. Nel 2008 è passato di li un signore, che come tanti entrano in biblioteca, si è presentato, e ha raccontato di essere un insegnare di letteratura italiana nella Università della California. Dopo poco ha proposto di organizzare un convegno dal titolo: latte e linguaggio. Il senso è riferito al fatto che i latticini sono prodotti spesso artefatti. Una mozzarella non è vera come dovrebbe essere. Questo, succede anche con le parole. Dare un significato alle parole, mettendo insieme segno e significato, oggi è diventato un optional spesso perché la pubblicità stravolge il senso delle parole. Così ne parlarono e fecero un convegno in cui lui invitò persone che conosceva anche provenienti dalla California: fotografi, gente dell’università di agraria e altri. Ci sono gli atti del convegno che è durato tre giorni e ha avuto un grande successo. Cosi l’organizzatore ha pensato di farlo ogni due anni. Questo fatto ha stabilito una relazione tra quello che era l’utilizzo della cascina quando c’erano le mucche di cui tanti si ricordano, ma non esiste una foto che lo dimostri. Hanno allacciato il discorso alla nutrizione, provando a fare anche educazione. Mangiare bene significa stare meglio, leggere bene fa stare meglio. Le due cose si legano e, con i convegni che organizzano sul tema, cercano di metterle insieme.

Ci dice che sarebbe bello se la piazza si ripopolasse. Ci dice che ogni giorno, quando va al lavoro e supera il parco, ci racconta che entra in un momento in cui lo stress sta fuori. Lui ci va a lavorare ma è un luogo che ha una predisposizione positiva e tutti coloro che passano lo sentono. Il circolo dei Talenti lo ha sperimentato all’interno del parco richiamando qualche migliaio di persone attorno al bar che gestivano e si capiva che c’era una bella energia, davvero. Ci dice che vorrebbe che anche la piazza della Piana assumesse la stessa funzione. Che fosse uno spazio di benessere dove, con calma e senza pericoli, le persone possano rimanere. Le energie necessarie non sono più quelle della piazza di una volta, precisa. La gente e i bisogni sono cambiati. Ci dice che le persone che circolano nella piazza oggi, sono quelli che cercano uno spazio per passare il tempo, caldo d’estate e freddo di inverno, spesso vanno nelle biblioteche, vanno al bar e hanno disperato bisogno di passare il tempo. Nel frattempo in zona sono stati aperti alcuni centri di accoglienza che hanno orari molto precisi dalle 18:00 alle 8 del mattino quando devono uscire e non sanno dove andare. Poi ci sono una serie di persone disagiate che cercano di passare il tempo. Una sorta di welfare di risulta che dovrebbe essere affrontato in maniera professionale. Non è l’operatore dell’anafgrafe che può risolvere loro il problema, ci dice che manca una politica che aiuti il piano organico della quotidianità perché spesso si parla di emergenza grave ma non di attività quotidiana.

Gli chiediamo, ricordando che a Chiaravalle si parla del tema della totale assenza di una piazza, quali sono le funzioni che stanno venendo privatizzate o dove luoghi residui come le biblioteche stano attivando funzioni? Quali sono le attività che funzionano da sole? Ci sono storie che funzionano meglio? O siamo obbligati a creare sempre palinsesti? Ci racconta che suo padre ha 80 anni, ha avuto un incidente sul lavoro ed è un invalido civile e per molto tempo ha cercato luoghi dove socializzare con altre persone, non potendo lavorare. Aveva trovato l’oratorio per giocare a biliardo e stare con gli amici, ma l’oratorio ha dato quello spazio in autogestione agli anziani. Da qualche tempo, Pasquale, incontra il padre alla mattina alle 8.00 perché va con gli amici in piazzetta e poi si spostano in massa al fiordaliso. In sostanza, ci spiega, per suo padre, la piazza di oggi è il centro commerciale. Ci dice che forse sarebbe necessario fare un’operazione di memoria. Un tentativo di mettere artificiosamente una serie di cose in luoghi che hanno tradizione diversa, andrebbero rinforzate le funzioni che vanno di più. Tempo fa, dice, avevano messo dei tavolini fuori nel parco della biblioteca e le persone chiedevano un mazzo di carte. Ma ci chiede: e se si mettesse il mazzo di carte a disposizione, equivarrebbe al riconoscere un bisogno vero? In realtà andrebbero forse analizzati i bisogni di oggi.

Gli chiediamo di spiegarci meglio la storia del Circolo dei Talenti. All’interno dello spazio, verde del recinto, ci racconta, c’è una chiesa storica dell’anno 1000 ristrutturata. Era di proprietà del comune che l’ha acquistata nel 1960. Da allora c’è una comunità di frati Francescani che hanno avuto una concessione della superficie di 90 anni con l’impegno a ristrutturare a spese loro uno degli edifici. Li vicino c’è la biblioteca poi c’era una tettoia dove c’era la casa del fattore con un ricovero degli attrezzi di circa 700 mq vicino alla casa. L’edificio ristrutturato dal Comune è stato messo a bando ad una attività commerciale per fare un posto di ristoro. Il circolo dei talenti si è aggiudicato il bando e, in maniera più o meno sconsiderata, ride, ha deciso che lo spazio non dovesse essere gestito dal punto di vista commerciale. Era semplicemente un luogo di aggregazione dove restare anche tutto il giorno senza l’obbligo di consumare. Il caffè costava meno e la brioche, spesso e volentieri, non c’era. Questa cosa ha creato un doppio risultato: da un lato le persone hanno cercato di prendere istintivamente possesso dello spazio. Si poteva prendere lo spazio gratis per le feste di compleanno, l’unica cosa che veniva chiesta era il giusto prezzo per l’acqua e le bibite e c’era la possibilità di portarsi le cose da casa. Così era diventato un luogo comune, uno spazio libero, un bene comune. La frequentazione andava da aprile a ottobre e il sabato e la domenica c’erano migliaia di persone che arrivavano. Il successo dal punto di vista sociale ha portato il comune a chiedere due mila euro al mese per lo spazio ma il gestore, che non pagava quel che doveva, ha accumulato un grande debito, così lo spazio è stato chiuso. Attualmente hanno concluso un bando sociale non commerciale a disposizione delle associazioni e ha vinto l’Impronta. Sicuramente sono più oculati nella gestione delle cose, e hanno introiettato una serie di esperienze, hanno ad esempio aperto un panificio dove a qualcuno che sa fare il pane affiancano dei ragazzi con disagi che imparano a vendere il pane ma anche a farlo. Poi hanno aperto un self service qui vicino con un cuoco e alcuni ragazzi in difficoltà lavorano per la distribuzione del cibo. Probabilmente anche li faranno una cosa del genere. Dal punto di vista sociale ha una sua validità ma il senso dello spazio comune che c’è stato con il circolo dei talenti sicuramente non tornerà più.

Terminato il primo incontro del primo tour, quando Andrea e Marta ci hanno portato al Casottel a pranzo, il gruppo di Super ha definitivamente capito che anche il luogo dove andare a mangiare è fondamentale in ogni trasferta. Così Diletta e Nicolò, che per il progetto si occupano di cascine, orti, produzioni biologiche e varie legate al food, hanno preso come impegno quello di trovare ogni volta un posto che ci permetta di sederci a tavola non spendendo più di 15 euro e mangiando cibo di qualità. Quando è possibile ovviamente, perché in fondo anche quello è mappare. Così anche a Stadera, dopo aver vagliato varie possibilità e aver rinunciato ad una vecchia trattoria a cui ambivamo in quanto chiusa, siamo finiti “Ai tre gradini” un lucano aperto da quarant’anni. Il cameriere tra un piatto di sott’aceti prodotto in casa e un altro, ci ha raccontato di come, il quartiere sia cambiato, e sia cambiata la popolazione. “Quarant’anni fa si che si lavorava, anche se ora siamo conosciuti e la nostra clientela ce l’abbiamo”.

Dopo il pranzo e vari caffè, appuntamento con Dar=Casa e Noicoop. Entriamo nel cortile che ospita la portineria delle Quattro Corti di via Montegani. Un complesso di proprietà Aler e gestito da due cooperative Dar=Casa e Solidarnosc del Consorzio Cooperative Lavoratori. Ci raccontano che dieci anni fa, grazie ad un contributo ricevuto da Cariplo è stato possibile ristrutturare degli alloggi sottosoglia e metterli nuovamente nel mercato dell’affitto a canoni agevolati con metrature dignitose. Ci fanno accomodare in uno dei due ex lavatoi che ora si chiama Spazio A, dove è in atto una mostra di street photography organizzata da Simona di Noicoop.

La prima a raccontarsi è Dar=casa, una cooperativa di abitanti a proprietà indivisa. MariaChiara ci spiega che gestiscono alloggi in affitto di proprietà della cooperativa stessa che assegnano a persone con redditi bassi e che non possono accedere al normale mercato della casa. Quando Dar è nata, si è concentrata particolarmente sul tema della casa per i per cittadini stranieri che arrivavano a Milano, poi, pian piano, sono arrivati anche gli italiani. Ora i soci sono misti. All’inizio l’accesso alla cooperativa avveniva grazie al passaparola perché le reti informali erano più attive ma, negli ultimi anni, Dar ha più rapporti con le istituzioni quindi ci sono altri canali di promozione. Chi può diventare socio? Coloro che hanno un minimo di requisiti reddituali. Attraverso Dar possono esprimere la tipologia di appartamento che desiderano e possono scegliere quale zona preferiscono, poi quando si libera qualcosa vengono avvisati. Gli appartamenti per lo più sono di proprietà pubblica quindi di Aler o del Comune e sono tutti alloggi sottosoglia, ossia troppo piccoli per essere assegnati tramite graduatoria delle case popolari. In sostanza Dar prende in gestione gli alloggi dal comune o da Aler pagando un affitto all’ente pubblico e li ristruttura, così può assegnarli ai soci con canoni che possono ricoprire, nel tempo, l’investimento della ristrutturazione e le spese di condominio che Dar paga ad Aler e al Comune stessi. Oltre agli alloggi pubblici Dar gestice altri alloggi che sono invece dei lasciti e che sono divenuti di proprietà della cooperativa, oppure appartamenti che sono stati costruiti con finanizamenti pubblici. Gli alloggi sono sparsi, l’unico intervento dove gli alloggi sono raggruppati è Stadera dove Dar ha sede.

Noicoop, invece, è una cooperativa sociale di condominio promossa dal Consorzio Cooperative lavoratori che nelle quattro corti, insieme a Dar Casa, si occupa di fare animazione e coesione. Ci raccontano che la Cooperativa La Famiglia, ora assorbita dalla Cooperativa Solidarnsoc è quella che storicamente, insieme a Dar Casa, ha partecipato all’intervento di ristrutturazione di un centinaio di alloggi. Solidarnosc è la cooperativa di abitanti più patrimonializzata del Consorzio Cooperative Lavoratori ed è quella che gestisce molti alloggi in affitto a canone agevolato, sociale e convenzionato, il loro intervento più noto è quello del social housing di Zoia. Per questo è nata Noicoop, per promuovere attività culturali all’interno dei condomini in affitto. Ci raccontano che Il CCL da poco ha anche attivato un global service di condominio SSA che gestisce gli alloggi stessi delle Quattro Corti. Noicoop è nata in occasione dell’assegnazione da parte di Aler degli spazi comuni consistenti nei due ex lavatoi (Spazio a e spazio B) e nella portineria. Dopo molti anni Aler ha deciso di ristrutturare gli spazi e le due cooperative si sono proposte per la gestione proponendo attività di vario tipo nello spazio A, e un concorso aperto per occupare lo spazio B.

Mostre, attività e una sala a disposizione degli abitanti “la cosiddetta stanza in più” dove fare feste o addirittura organizzare corsi di ballo latino americano per i condomini fanno parte di un fitto calendario per l'utilizzo dello spazio A, quello in cui siamo seduti mentre ci raccontano la loro esperienza. Lo spazio B è stato assegnato a Serpica Naro, tramite concorso, appunto. L’idea, ci spiegano, è stata quella di aprire ad artigiani, creativi, lavoratori del mondo dell’arte che potessero presentare un progetto di attività dedicate ad abitanti e quartiere. L’affitto è bassissimo, giusto una copertura delle spese.

Ma le vincitrici del contest di cui ci parlano le incontreremo dopo aver fatto una tappa veloce da Linke uno spazio per la fotografia, poco distante da Piazzale Abbiategrasso. Abbiamo appuntamento con il fondatore, Loris Savino, che ci chiede di essere molto puntuali, stanco per un viaggio non riesce a fermarsi troppo. Così decidiamo di anticipare la tappa ma arriviamo nel bel mezzo di un pranzo pomeridiano tra fotografi in pausa shooting e siamo costretti a berci l’ennesimo caffè nel bar gestito da una famiglia araba in cui ormai siamo di casa.

Quando riusciamo ad entrare, Loris ci racconta che Linke è uno spazio nato nel 2011, inizialmente era il suo studio che lui condivideva con un altro artista. Poi con il tempo è diventato un laboratorio di stampa fine art dove si organizzano delle mostre che coinvolgono varie realtà del mondo della fotografia. Durante la nostra visita, ad esempio, appeso ai muri, un lavoro sul territorio e sulle periferie fatto da Exposed, un gruppo di giovani fotografi. Chiediamo a Loris come mai uno studio di fotografia internazionale proprio lì. Ci racconta che la ricerca del posto nasce dall’esigenza di tanta luce, di una dimensione ampia e poche finanze da investire. Così Loris ha trovato questa vecchia officina meccanica dell’Alfa Romeo.

Ci dice che il quartiere non partecipa molto alle mostre, la gente latita tanto che nemmeno alla presentazione di Howie B con una sua performance è arrivato il vicinato. Ma Milano è una città dove è difficile allargare il bacino, i giri sono sempre quelli e sono frequentati esclusivamente da fotografi quindi è raro riuscire a coinvolgere altri interessi, in un’altra città sarebbe diverso, forse. Linke è un punto di riferimento per la fotografia però, è uno spazio non in centro, ma che dista solo 24 minuti a piedi da Piazza 24 Maggio per Loris questa non è periferia e non è soprattutto una periferia problematica, quelle sono ben altre. E' difficile smuovere la gente nonostante iniziative di un certo calibro, ma su questo, ci lavoreranno. Loris ci intrattiene un po’ raccontandoci delle macchine con cui stampano, spiegandoci il lavoro esposto alle pareti . Ma noi siamo di nuovo in ritardo sulla tabella di marcia. Così ci riportiamo in zona, ricalcando per la quarta volta in un giorno lo stesso tragitto. Qualcuno dice:” Sembra che abbiamo un elastico legato a Piazzale Abbiategrasso”.

Ritorniamo alle Quattro corti, nello spazio B dove ci accoglie Chiara Birattari, di Serpica Naro. Entriamo infreddoliti e troviamo delle tazze di the ad accoglierci, ci disponiamo, accendiamo di nuovo le telecamere e Chiara ci racconta chi è Serpica Naro, l’anagramma di "San Precario". Tutti concentrati all’ascolto di una storia notevole. Durante una settimana della moda di parecchi anni fa, si fingono una stilista anglo-nipponica, un fake in pratica, e riescono a fare una sfilata dove poi, di fatto, denunciano la condizione assurda del mondo della moda che impone taglie e schemi seppellendo in maniera forte la moda indipendente sotterrandola sotto le logiche delle grandi aziende.

Chiara ci parla del gruppo e ci racconta che il nucleo storico aveva più interessi sulla comunicazione, la grafica, il videomaking, e poi c’erano stiliste autoprodotte. Ora invece ci sono anche tante sarte costumiste che lavorano per il teatro. E’ un’associazione di circa 11 persone, sono in sostanza tutte donne e sono tutte presidentesse.

Non hanno un approccio integralista, ognuno da quello che può in termini di tempo e fanno progetti di vario tipo come quello della scuola di Via Paravia, dove portano i bimbi nel futuro con un’astronave e al primo modulo i bambini costruiscono il costume da portarsi durante il viaggio. Ogni tanto collaborano però anche con l’estero e hanno una componente di ricerca sociale ma anche sui materiali e le nuove tecnologie. Una di loro ha costituito We make, un Fab lab, così creano oggetti tagliati al laser, ma il loro forte sono le macchine da maglieria che vanno con le schede perforate. Hanno un forte rapporto con il quartiere, lo cercano, ad un certo punto suona il campanello, è Jaqueline, una inquilina filippina delle Quattro corti che con loro ha imparato a cucire e ora quel che ha imparato lo insegna alla sua comunità.

Chiara ci racconta che hanno un software on line che permette, in open source, di creare pattern partendo da immagini jpg, si crea file vettoriale che poi si può portare in fab lab a stampare oppure ci si può costruire la stampante in casa. Lavorano molto con Arduino, è un modo per far parlare la macchina da maglieria antica con il computer. Tra gli altri corsi, Chiara ci racconta di “uomini che non devono chiedere mai” l’insegnante: un tecnico luci alto 1,90 che ha la passione per il cucito. Ma come arrivano a loro? Beh, la gente arriva tante volte tramite Elias, il portinaio, che individua quelli delle corti, altri invece arrivano attraverso i social.

Tutto quello che inventa Serpica Naro lo mette a disposizione in open source. Qualcuno le loro cose le scarica e le realizza, ma spesso l’idea di creazione è vista come atto unico e diventa difficile utilizzare prodotti di altri, così tutti cercano di puntare molto sulla propria identità. Loro questo lo sanno e sono molto disponibli ad affiancare nel processo.