18 Ottobre 2017
Di
Federica Verona

Tra la Stazione e la Martesana si accoglie, si tutela il territorio, si animano fab lab, si costruiscono biciclette, si organizzano film festival e si aprono cascine innovative.

Ferrante Aporti, Viale Monza

Prima Tappa: Il Museo della Shoah

L’appuntamento è come sempre al mattino, questa volta non propriamente in una zona molto periferica. Ci troviamo infatti davanti al Memoriale della Shoah di Milano, dove ci aspettano Roberto Jarach e Marzia Ponzone una rappresentante della Comunità di Sant’Egidio. Ci fanno entrare in questo luogo magico che, durante l’estate, si è trasformato in un centro di accoglienza temporanea.

Ci mettiamo in cerchio, accendiamo le videocamere e Roberto inizia a raccontare per primo. Il memoriale, ci dice, è stato formalmente inaugurato nel 2013 e la sua funzione principale è quella di fornire degli strumenti soprattutto al mondo della scuola per conoscere quella che è stata lo storia della deportazione degli ebrei e della deportazione in generale del periodo nazifascista. Due anni fa però hanno aderito ad una richiesta del Comune di trovare delle soluzioni  per l’enorme afflusso di profughi che arrivavano nel Sud Italia.

Così hanno arredato una porzione dell’enorme spazio che hanno a disposizione per la notte e hanno creato una zona per la distribuzione del cibo.

Hanno accolto le persone dalle 20.00 alle 8.00 tutti i giorni dell’emergenza. Ovviamente, ci spiega, la decisione non è stata semplice perchè garantire un ambiente salubre e accogliente non è così scontato soprattutto perchè, inoltre, non essendo ancora ufficialmente aperto il Memoriale non ha un organico di personale dipendente che possa svolgere le funzioni di apertura e chiusura. La collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio è stata però, in questo, fondamentale per organizzare questo progetto di accoglienza.
Una volta uscita la notizia, nei canali della Comunità, ci sono state più di 200 dichiarazioni di disponibilità e di interesse a partecipare all’iniziativa ed è stato un grande segnale rispetto alla disponibilità della cittadinanza in termini di accoglienza.

Con i nuovi flussi migratori, ci raccontano, si sono trovati di fronte a nuove tematiche. Il 2016, rispetto al 2015, sono cambiati i tempi di permanenza. Nel 2015 chi arrivava tentava già di ripartire il giorno seguente verso il nord, con i treni, dalla Stazione Centrale. A frontiere chiuse questo era impossibile perchè i flussi si sono completamente bloccati.

In realtà si è creato un doppio flusso parallelo tra coloro che volevano richiedere l’asilo politico e quelli che non ne avevano intenzione ma puntano comunque ad andare verso Nord. Delle politiche di sostegno, supporto e soluzione dei problemi burocratici ma anche immediati, è la Comunità di Sant’Egidio a occuparsene. 
Gli chiediamo se ci sono problemi con la normale funzionalità del Museo, ci spiega che  quello estivo è un periodo di bassa affluenza perchè le scuole sono chiuse, solo lo scorso anno scolastico ci sono stati flussi che hanno toccato vette di 17.500 visite: 800 classi provenienti da 300 scuole diverse.

Marzia Ponzone, che rappresenta la Comunità di Sant’Egidio ci racconta che per loro, l'arrivo dei profughi, ha rappresentato in primo luogo una domanda forte di accoglienza, a cui hanno cercato in tutti i modi di dare risposta.

Tre anni fa, il fenomeno di quella che si chiama "l'emergenza profughi" è arrivata all'attenzione di tutti. Anche a Milano, con primi arrivi massicci provenienti in primo luogo soprattutto dall'Eritrea, dall'Etiopia, dalla Siria, Afghanistan. Il luogo dove le persone si riunivano durante la giornata e la notte erano i Bastioni di Porta Venezia. Per lungo tempo la domanda di accoglienza, il tentativo di rispondere al loro bisogno di essere accolti in questi pochi giorni di transito a Milano si svolgeva proprio lì, in quel luogo. Dopo di che invece c'è stata la disponibilità di avere spazi dove poter strutturare in maniera più degna l'accoglienza. All’inizio si trattava di un'accoglienza di transito, ci spiega, si vedevano molte famiglie dalla Siria con bambini, giovani dall'Eritrea che magari stavano a Milano una notte, due notti, tre notti e ripartivano con i primi treni delle cinque del mattino verso le loro destinazioni europee.

Di molti di loro hanno potuto seguire anche le storie, nel tempo, li hanno visti arrivare nei paesi dove desideravano andare, la Germania, la Francia, i paesi del Nord Europa, la Norvegia, la Danimarca, cercando di raggiungere parenti o persone che conoscevano, affrontando il viaggio anche con la determinazione di portare a compimento un progetto, una sorta di ricongiungimento familiare o comunque con famiglie o persone e amiche lontane.

Nel 2016 la situazione è cambiata. La domanda di accoglienza per Sant’Egidio rimane fondamentale, nel senso che le persone hanno ancora più bisogno di aiuto: i tempi di arrivo a Milano sono più lunghi, più lenti ed è difficile ripartire.

L'Europa, dice Marzia, ha attraversato e sta attraversando una fase di grande paura dell'accoglienza, paura nel tenere aperte le frontiere, anche i grandi eventi politici e sociali che si sono svolti sono un segno chiarissimo della paura che questo continente ha di affrontare la domanda che ci pongono con grande chiarezza e disperazione i profughi.

Già quello che è successo appunto a Londra è un caso chiarissimo, è notissimo il fenomeno della Brexit che probabilmente è determinato in grandissima parte dalla paura di accogliere gli immigrati. Per questo poi si alzano i muri e si sbarra l’accoglienza. Questa fase rallenta il transito dei profughi verso le loro destinazioni naturali cioè quelle che avrebbero eletto come loro destinazione ultima in questo viaggio che a volte dura mesi, a volte anni e che quindi dobbiamo immaginare come un percorso che cambia le loro vite e le rende persone nuove e diverse in ognuna delle stazioni verso il luogo dove vogliono portare avanti il loro progetto di vita. Non è semplice, ci dice alzando le mani al cielo.

Perchè è vero, riflettiamo insieme, che Milano diventa da luogo di transito di una notte, una stazione che può magari durare mesi o chissà, per qualcuno, potrebbe diventare il rifugio definitivo per ripensare un nuovo progetto di vita.

E’ una grande fortuna avere la disponibilità di spazi belli, accoglienti, come il Memoriale, con la possibilità di farsi le docce, di aver dei bagni, un letto, una cena seduti intorno ad un tavolo dove si ritrova un po’ di serenità dopo giorni e giorni di viaggi complessi e difficili. Però resta il grande tema del futuro che è una domanda su cui tutti loro si interrogano e a cui forse  dare una risposta unica, semplice e immediata non è facile.

Le chiediamo di parlarci dei volontari, e come diceva Roberto, una volta partito il progetto di accoglienza, più di 200 persone in un giorno solo hanno dato la loro disponibilità. Marzia ci racconta che sono persone molto diverse, persone che forse non si sarebbero incrociate "naturalmente" nei loro percorsi quotidiani della città, che fanno lavori diversi, che vengono da storie personali molto diverse, che hanno anche storie di fedi religiose diverse (comunità ebraica, cristiani cattolici, anglicani, musulmani). Intorno al Memoriale si è mossa un’ accoglienza di tante persone diverse con un grande desiderio di aiutare in comune. perchè aiutare, ci dice, è il primo modo per vincere la paura.

Ci sono i modelli anglosassoni o il modello alla francese che finora sono stati sperimentati con risultati alterni. In Italia siamo arrivati un po'dopo, ma il modello adottivo che è stato sperimentato con i corridoi umanitari è un modello che sta dando dei buoni risultati, i corridoi umanitari sono stati per altro una risposta che Comunità di Sant'Egidio e Chiesa Valdese hanno messo in campo per tentare di evitare i viaggi della speranza e spesso della morte, nel continuo porsi la domanda della gestione di una situazione che semplicemente il muro non può fermare, anche statisticamente. Viene reso solo più difficile il transito attraverso le frontiere verso il paesi del benessere e la speranza di un futuro di vita e questo per loro è molto importante.

Quando le persone arrivano che cosa succede? Chiediamo. Scatta quello che si chiama il modello adottivo cioè la famiglia, il gruppetto di persone che è arrivato, viene adottato sul territorio da una famiglia che magari mette a disposizione la casa o mette a disposizione il proprio tempo, l'aiuto perché le persone che arrivano vengano inserite in un programma di apprendimento linguistico, di potenziamento professionale e quindi un po'alla volta nei sei mesi dell'accoglienza, si può entrare da subito bene a far parte della nostra società anche in modo propositivo e costruttivo e non al contrario per essere, come si legge spesso nei giornali, un peso, una fatica, un aggravio per la nostra società.

Quando sono scattati i corridoi umanitari c'era una grande paura, perché non si sapeva se ci sarebbe stata la possibilità  di raccogliere risorse a sufficienza per garantire l'accoglienza delle persone che arrivavano, ma si è raccolto il triplo di quello che era necessario. Questo dimostra che le persone desiderano essere accoglienti, desiderano dare una mano e desiderano costruire una società più forte, più inclusiva con una visione per il futuro e quindi di fronte a questo sta a noi essere d'aiuto per trovare ii modi e le strade per farglielo fare

Quello che si è fatto al Memoriale, può essere un modello di futuro. Quello che si fa nella città può diventare un modello di futuro per tanti ed è bello pensarlo anche se non sappiamo esattamente dove tutto questo ci porterà
Chiediamo loro se i volontari abitano in zona oppure si riesce a coinvolgere in qualche modo i negozianti.
Il Memoriale rappresenta un'esperienza così particolare che gli aiuti sono arrivati da tutte le parti, dalle parrocchie intorno, dai gruppi scout, dalla chiesa anglicana, le persone sono curiose e chiedono di partecipare, forse questo è determinato anche dal luogo che è un simbolo di dolore e di disperazione.

Siamo curiosi di capire come funziona la rete con le altre strutture di accoglienza.

Roberto ci spiega che loro non gestiscono la prima accoglienza, ma la seconda, i profughi a Milano vengono accolti normalmente quasi integralmente da Arca che è l'associazione che è stata proposta da parte del Comune a questa funzione ed è Arca che decide come distribuire le persone. Il Museo ad esempio si è candidato all’accoglienza delle famiglie. In particolare siriane, del Sudan, Etiopia ed Eritrea. In generale viene data priorità a chi di loro si ripresenta entro la sera, a chi è riconoscibile grazie a una tesserina, poi dalle 21.30 si chiama Arca comunicando quante persone in più si sono presentate.

Inoltre c'è il grande problema della giornata, Arca ha cercato di superare almeno per alcune categorie questo problema, ma, ci spiega Roberto, non sono in condizioni di farlo con stabilità .
Fino ad oggi, dice, se leggiamo i giornali vediamo che c'è la preoccupazione di trovare un letto, questa è la preoccupazione più grande, nemmeno il cibo. Ma se si estende questo concetto è possibile capire che il tempo intero della giornata non è considerato. Quello su cui Sant'Egidio sta lavorando è provare a dare qualche risultato formativo o comunque di tentativo di inserimento in una società completamente diversa dalla loro con barriere linguistiche, barriere concettuali, barriere di tipologia di vita. Roberto si agura che presto si inizi a ragionare su questo, in maniera seria.

Il museo ha fatto 4.500 accoglienze: siriani, eritrei e afghani oltre  ad altre 23 nazionalità. Il numero di persone accolte ha rappresentato il 5% del fabbisogno di Milano. Questo dimostra quanto una realtà che si crede microscopica possa essere tanto significativa.

Purtroppo c’è ancora la paura e spesso la mancanza di servizi pratici, come la dotazione di bagni chimici dove si creano gli assembramenti, non aiuta a cambiare il pregiudizio che spesso si instaura nei cittadini milanesi. L’accoglienza può essere un percorso graduale, le trattorie o i bar della zona, ad esempio, dopo un primo momento di preoccupazione sono diventati più solidali imparando a conoscere chi arriva. Persone che con sè non hanno davvero nulla se non pochi vestiti e delle ciabatte infradito, spesso sono minorenni soli e indifesi.

L’accoglienza che si costruisce pian piano è fatta da persone che passano una sola sera, altre che vengono con continuità, bar che portano l’acqua e ristoranti che portano il cibo. Questo è molto bello.
La maggior parte delle persone che sono state ospitate al Memoriale sono ragazzi molto giovani, molti sono di nazionalità eritrea, che devono capire cosa fare del loro futuro e per questo è importante aiutarli a ritrovare un progetto di vita per il futuro

Chi arriva per la prima volta va in Via Sammartini, viene registrato poi, da via Sammartini viene mandato nei vari punti di accoglienza, nel Memoriale riceve la tesserina, fa la sua cena, va a dormire, fa la sua doccia, la mattina alle 8 deve uscire, chi rimane tutta la giornata, alcune categorie più tutelate restano in via Sammartini, chi no vaga nella città torna la sera, per alcuni giorni, intanto arrivano nuove persone, i vecchi permangono poi arriva Novembre e inizia la paura dell’inverno e del rischio altissimo di homelessness.

Chiediamo loro se quando vengono le scuole si racconta anche dell’accoglienza, proprio perchè il Memoriale è un luogo molto visitato dai più piccoli.
Roberto ci racconta che per loro è molto importante raccontare questa storia, addirittura la mensa dei Lubavitch che è un gruppo della comunità ebraica di Milano, mandava due, tre sere alla settimana, il cibo quando ancora il servizio Arca non era rodato e funzionante.
Il Memoriale è diventato un esempio virtuoso di quello che in fondo con qualche sforzo è possibile fare.

Facciamo un giro del luogo, li seguiamo rapiti dalla bellezza di questo posto, che ancora in pochi a Milano conoscono, ci rimane nelle orecchie ancora il rumore dei treni che durante la chiacchierata ci ha accompagnato a tratti.
Ce ne andiamo con questo senso di profondità e coscienza di quanto si possa fare nell’emergenza anche con poco e che spesso i luoghi, con il coraggio di qualcuno, possono essere trasformati per rispondere a bisogni urgenti.

Seconda tappa: Il FAS

Come sempre siamo in ritardo per l’appuntamento successivo, in Via Ferrante Aporti, sotto il glicine con Donatella del gruppo FAS.

La troviamo ad aspettarci insieme a Orsola. Entrambe indossano la maglietta del loro gruppo: Associazione Ferrante Aporti Sammartini che sono le due vie intorno ai binari. Sono nati nel 2011 costituendo un comitato allo scopo di spingere la riqualificazione dei magazzini, oggi al centro del dibattito e progetto partecipato sugli Scali Ferroviari. Dopo una camminata di quartiere si sono resi conto che era una questione molto sentita nel quartiere perché dal 2001 quando Grandi Stazioni ne è diventata proprietaria, ha iniziato progressivamente a svuotarli e a non rinnovare i contratti. Quindi da un luogo vivissimo, pieno anche di lavoro, di esperienze di vita è diventato un luogo abbandonato. Ora sono state pulite le facciate e anche ridipinte tutte le parti metalliche ma fino a poco tempo fa non era un luogo tenuto bene.

Donatella ci racconta della loro collaborazione con il plesso Ceresola dove i bambini hanno capito cos'erano i Magazzini perchè facevano parte del Consiglio delle ragazzi e delle ragazze dell’allora Consiglio di Zona 2 e hanno fatto delle loro proposte su come si potessero trasformare i Magazzini così, da lì, è nata l'idea di fare vivere quel luogo alla gente. Così hanno organizzato un evento di due giorni nel giugno 2013.  La strada è stata chiusa al traffico e tutto si è animato: c'era chi faceva rugby, chi giocava a pallacanestro, capoeira, parkour, c’erano mostre fotografiche. Da quel momento la gente ha preso coscienza e ha iniziato  a raccontare le sue storie al FAS.
Il loro scopo è anche quello di portare i cittadini ad un tavolo con l'amministrazione e la proprietà per decidere quale sarà il destino di questi 130 magazzini che si estendono per 1.5 km, e hanno una superficie 44.000 mq. Sorride Donatella e dice ”è come fosse un grattacielo orizzontale, sicuramente un grosso impatto per la città”. Orsola ci spiega che i magazzini si accendevano quando c’erano le botteghe e le attività commerciali e c’era un passaggio. Ora non c'è un motivo così forte per farsi 150 m di galleria, non è così spontaneo.

Chiediamo loro se i magazzini sono stati riqualificati anche internamente. Ma ci spiegano che no, anzi, hanno problemi di perdite d'acqua e di muffe perché i binari ostacolano l’impermeabilizzazione. I magazzini sono profondi solo 28 m, si chiamano raccordati perché sul retro hanno un binario dove arrivavano i treni, scendevano con il montacarichi, distribuivano le merci e poi ripartivano.

Ci raccontano, con il grande entusiasmo di chi ama un luogo, che in Ferrante Aporti Sammartini c’è molta storia, è un pezzo di città importante, perchè è stato uno snodo per tutte le merci che si spostavano in Europa. Infatti c’erano molti negozi come ad esempio Pirola Passerini, punto di riferimento degli imballaggi, le Olierie toscane perché arrivava direttamente una grandissima damigiana che veniva scaricata e si distribuiva l’olio. Ora tutto questo è andato perso, il lato Sammartini ad esempio, era più un lato attivo la notte perché era legato al pesce e ai giornali che arrivavano  in piena notte, infatti c'era un legame fra queste due attività, tutti quelli che vendevano giornali avevano un frigorifero con il pesce che pagavano magari con un pacchetto di giornaletti pornografici.

Si mangiava il pesce più fresco che in riva la mare in questo mondo notturno anche fatto di disperati, di “gente un po' scappata di casa” come dicevano loro, erano lavori davvero pesanti poi.
Come quello del facchinaggio ad esempio, sparito dopo che hanno inventato le valige con le rotelle.  La cooperativa Facchini era molto importante per la collettività, si dividevano le mance una volta l'anno tutti assieme poi iniziavano con il bianchino alle 4 del mattino, ma erano un'identità forte del quartiere.

Il quartiere, spiega Donatella, la ferrovia non l’ha vissuta soltanto guardandola, ma con grande profondità, e cancellare tutto questo è come sradicare un'identità.

Noi le ascoltiamo mentre parlano davanti ad un bellissimo glicine, è il momento di conoscerne la storia. Ci mostrano una foto di qualche anno fa. Il Fas insieme a Legambiente lo ha salvaguardato, anzi lo hanno adottato: è stato piantato da un signor Umberto che in zona aveva la sua drogheria e quando si è sposato lo ha piantato per la moglie. Ora lui non c’è più ma lei si affaccia e ancora può vedere il glicine che il marito ha piantato per lei!

Lui lo bagnava tutti i giorni e ora cresce da sé, ad un certo punto, però, l’ Amsa è passata e con la motosega ne ha tagliato un pezzetto, nel giro di poco tempo, la gente dei palazzi è scesa e l'Amsa se l'è data a gambe, da quel giorno si è deciso di  proteggerlo ancora di più e di salvaguardarlo, era l'unica macchia verde in una via in stato di abbandono quando i muri erano ancora da pulire. Così hanno pensato che nel momento in cui fosse iniziata la riqualificazione magari l'avrebbero tagliato, quindi hanno lavorato con Legambiente per salvarlo e c’è stata anche una bella collaborazione con la ditta che ha fatto il lavoro delle facciate. Quando hanno montato l'impalcatura, hanno aspettato il momento giusto per fare questa parte, è arrivato il giardiniere, che allora era il giardiniere dell'Orto Botanico di Brera, e ha tagliato sopra la vite canadese per distinguerli, ha potato tutto il glicine perché era immenso, poi, spiega Donatella, la pianta è stata tutta fasciata, mummificata, l' hanno staccata dalla parete, hanno fatto il lavoro di restauro e poi l' hanno ancorata.

Ci spiegano che questo ha dimostrato che la collaborazione tra i cittadini, l'amministrazione e della la ditta che ha fatto i lavori, è stato un processo virtuoso che dimostra che tutto si può fare basta mettere il seme della volontà

Chiediamo loro in quanti sono nel gruppo. Sono circa una ventina anche se il gruppo è elastico, c’è chi va e chi viene, la vita cambia a volte, ma la partecipazione è sempre altissima quando promuovono delle iniziative.

Hanno anche pubblicato un libro facendo un crowdfunding e la gente ha risposto partecipando attivamente.
Chiediamo loro cosa pensano del fatto che il Comune si stia molto impegnando per la trasformazione e riattivazione degli Scali, e se non temono una grande operazione dove possano arrivare i colossi del commercio come Zara, H&M che sicuramente attirano molto indotto ma rischiano di uccidere dinamiche artigianali artistiche o locali, siamo curiosi anche di capire se sono stati coinvolti nel processo.

Donatella premette che i Magazzini non sono del Comune ma di Grandi Stazioni, e di questa cordata Italo francese che ne ha acquisito il diritto per 40 anni. Il Comune dice li ha molto seguiti, la prefazione del loro libro l’ha addirittura scritta la De Cesaris che allora era assessore all’urbanistica dove letteralmente dice "Se non si muovono procederemo a cercare di smuoverli". Il Comune, ci dicono, è interessato ad aprire una progettazione partecipata, ma il problema è che non è lui il proprietario.

In molti hanno chiesto e chiedono di usare gli spazi dei magazzini, per film, mostre, eventi, chiediamo loro se tengono memoria di tutte queste richieste. Ci spiegano che hanno un faldone in continuo aggiornamento di richieste e domande, sia mai che serva per costruire un programma basato su richieste pragmatiche, aggiungiamo noi.

Facciamo una passeggiata, costeggiando i binari entrando nel tunnel avviandoci verso la Martesana. Chi a piedi, chi in bici, il sole è caldo.

Ci fermiamo nel parchetto che affaccia sulla Martesana, persone che parlano al telefono, che aspettano la distribuzione dei vestiti, la somministrazione del pasto. Donatella ci racconta del loro progetto per riqualificare quella esatta parte. Durante “Puliamo il mondo” hanno ripulito la discarica abusiva lì davanti, ad esempio. Così con legambiente è partita una petizione per chiedere un corridoio ciclabile. Tutti pensavano fosse impossibile perchè si trattava di una proprietà comunale. Di lì doveva partire una strada, avevano messo quello spazio nell’elenco dei beni pubblici, e poi se lo sono dimenticato. Nell’attesa di risolvere la situazione, grazie a un piccolo finanziamento di Zona 2 (oggi sarebbe il Municipio) hanno iniziato a sistemare il prato, piantare degli alberi, mettere le luci, coinvolgendo scuole e abitanti per capire quale fossero i desiderata. Ci invitano ad andare a vedere com’era l’area su google maps.

E poi ci raccontano del murale dedicato alla Resistenza in un muro di Sammartini che nessuno sapeva di chi fosse. Tre anni fa, in occasione della Resistenza hanno voluto fare un murale dedicato insieme al Consiglio di Zona. Tirano fuori qualche ritaglio di giornale, Donatella ride e dice di sentirsi un po’ una nonna, anzi no, una zia con le foto di famiglia.

Guardiamo insieme articoli e le cose scritte su di loro. Questa enorme famiglia nata da un bisogno semplice, quello di riprendersi cura del luogo in cui abitano.

Terza Tappa: We-Make

Tempo di un kebab in Viale Monza, vicino al Ragoo, e siamo pronti per la terza tappa. Nel frattempo ci hanno raggiunto amici ma anche persone che non conosciamo. Siamo felici che i tour di Super stiano diventando motivo di curiostià per un pubblico che non ci aspettavamo.

Appuntamento alle 14.30 tra Gorla e Ponte Nuovo, cambiamo genere, cambiamo scenario, We Make un luogo dove si parla di artigianato e tecnologie.

Ad aspettarci Zoe Romano, una figura di spicco del mondo dell'innovazione. Purtroppo ha poco tempo perchè deve iniziare un workshop di li a poco.

Così la facciamo sedere su un tavolo, noi ci disponiamo tutt’intorno e inizia il racconto.

We Make nasce nel 2014 dopo circa due anni di lavoro per trovare fondi, risorse e partner che li aiutassero ad aprire. Che cos'è We Make? E' un laboratorio anche detto Makerspace, Fablab uno spazio dove ci sono tecnologie di fabbricazione digitale e dove si muove una community, dove si fa formazione e si può accedere alle macchine con dei corsi di abilitazione dopo dei quali, queste possono usare in modo autonomo. Una sorta di palestra in cui, invece di usare l'alza pesi, si va a fare progetti e anche piccoli prodotti o prototipi. Uno spazio dedicato a chi ha delle idee o delle esigenze e che vuole attivarsi in prima persona da solo o in gruppo per renderle concrete, per fare oggetti fisici e funzionanti, perché non si parla, dice Zoe, solo di cose statiche come possono essere dei mobili, degli oggetti, delle sculture ma anche di progetti un po' più smart che contengono dell'elettronica e una parte di software e danno la possibilità di interagire con altri.

Le chiediamo di raccontarci quali macchine hanno: stampanti 3D, fresa a controllo numerico, taglio laser, microcontrollori, un ambito che riguarda la moda e il texstyle quindi macchine da cucire, da maglieria e poi i materiali che con queste macchine possono essere usati: legno, plexiglass e tutti i vari tessuti possibili ed immaginabili.

 

I makerspace di FabLab sono delle realtà che sono nate da varie influenze come gli hacker space che c'erano una volta. Zoe, ad esempio, faceva parte di un hacker space occupato a Milano e che si chiamava Aloha. Lì si faceva sperimentazione su software open source, si mettevano a posto i computer, si facevano i corsi per introdurre le persone alla programmazione.

WeMake  prende un po' l'idea dell'Hacker space e la rielabora. Uno spazio in cui si sperimenta e si fa formazione.

Chiediamo a Zoe di spiegarci chi frequenta lo spazio. Le persone che lo frequentano sono circa 40% donne e 60% uomini, i loro fan su fb sono metà e metà, forse le donne sono un po’ di più e questo fa loro molto piacere. La frequentazione di WeMake è stata una sfida, alla base c'è il digitale e la tecnologia, e comunque il quartiere in cui si fanno le cose conta. Prima di partire cercavano dei partner e hanno conosciuto i fondatori del co-working di fronte a loro, i quali hanno detto:” se WeMake venite ad aprirlo qua di fronte a noi vi aiutiamo e diventiamo partner “.

Lo spazio era vuoto, prima c’era una stamperia che è fallita, sono andati a vederlo e gli è piaciuto, in un'area comunque ben fornita dalla metropolitana con prezzi degli affitti non stellari come in altre zone e poi, dice Zoe, la zona non è ancora gentrificata, quindi i prezzi anche per mangiare non sono alti.

Così hanno iniziato a costruire un rapporto con il quartiere, ad esempio vanno al mercato vicino con un drone e con la stampante 3d e li fanno usare alla gente che è entusiasta di scoprire qualcosa di nuovo. E’ così che molti si iscrivono ai corsi. Certo le attività con il quartiere sono sporadiche perchè loro lavorano molto e molto in giro. Però le porte sono sempre aperte.

Zoe ci racconta delle community night una volta al mese, dove c'è un tema diverso diciamo tutti i martedì del mese la stampa 3d , l’I-coding, l’open education quindi dedicata ai docenti delle scuole che vogliono imparare a capire un po’ di più di quello che fanno e di come quest'approccio può essere portato all'interno delle scuole. Poi aiutano a far nascere spazi come il loro, hanno dato una mano  alla biblioteca di Cinisello Balsamo, a Merate al Centro Giovani, a Sulbiate dove hanno fatto formazione.

Zoe ci spiega che è molto interessante far germinare delle attività simili fuori Milano dove c’è un campo fertile e dove loro danno una mano per capire qual’è il contesto, che risorse ci sono nelle loro situazioni locali e spesso si interagisce con giovani e scuole.

Insomma costruiscono la community building che è fondamentale per costruire ogni processo, un po’ come l’orto, non basta farlo ma serve innaffiarlo tutti i giorni e innaffiare, per WeMake vuol dire creare community night, creare eventi, creare situazioni che chiamino varie tipologie di persone.

Loro, ci spiega Zoe, nel primo anno hanno fatto moltissimi eventi perchè questo tipo di approccio può essere applicato alla moda, al design, alla costruzione di domotica, ai sistemi di monitoraggio, perfino alle astronavi spaziali, droni, insomma dalla city of science al trend di moda con il vestito da sposa laser.

Chiediamo a Zoe di raccontarci come sta cambiando l'approccio a queste nuove tecnologie da quando loro sono arrivati.
Ci spiega che crescono di più e organicamente perché per loro funziona di più con il passa parola che con il push classico di pubblicità. Hanno fatto un cartellone pubblicitario in corso Garibaldi, un 6x3 m, che diceva co-working, maker space! Non è arrivato un contatto.

Le chiediamo con quale settore lavorano di più.

Puntano molto su progetti europei per finanziare le attività del lungo periodo, educational con la formazione a formatori, studenti, fino ad arrivare alle aziende che vogliono capire un po’ di più di questi ambiti e poi fanno ricerca perché nei progetti europei di solito cercano di capire come questo modo di lavorare possa avere impatti in alcuni determinati settori. Open care è un progetto, ad esempio, che lavora su come le community off-line e on-line, all'interno di un contesto maker, possano trovare in autonomia soluzioni per i problemi di cura, quindi è una sfida bella grossa.

Perchè si parla di cura in senso ampio non solo health care.
Le diciamo che è interessante, perchè non riusciamo ad immaginare la tecnologia rispetto alle relazioni che creano.

Hanno fatto un percorso di sei mesi di design thinking, ci spiega Zoe, con delle comunità che ha coinvolto il Comune di Milano e sono emerse delle idee e delle esigenze, bisogni. Ne hanno individuato uno che ha messo d'accordo tutti: un dispositivo customizzabile  di salva vita. Non il classico Beghelli ma qualcosa di programmabile che mandi sms, mail, telefoni. Questo è un esempio che può essere usato in casi in cui vivono insieme disabili, anziani, malati e risponde a una esigenza precisa. Ossia che chi di notte assiste le persone che stanno dormendo in case attrezzate ha bisogno di sapere se c’è un allarme. E’ proprio un allenamento mentale di non pensarsi come passivi riceventi di una cura ma come attivi cittadini che hanno interesse e la possibilità di collaborare con altri per trovare soluzioni condivise e low cost.

Zoe ci porta a fare un giro, intanto le ragazze del workshop prendono posizione.
Ci mostra un’area workshop dove fanno le presentazioni, il texstyle, la macchina da maglieria, e poi l’area di elettronica con saldatori, microcontrollori.

Il laboratorio è pieno di gente che lavora intenta a costruire il proprio progetto. E’ tardi lasciamo Zoe al suo workshop e ci spostiamo verso la Martesana.

Quarta Tappa: Cascina Quadri in bici

Direzione Cascina Quadri in bici dove incontriamo Piero Grassi.

Il tema del micro commercio ci interessa molto e l’idea di visitare un laboratorio di biciclette ci interessa perchè SuperMi100, il progetto di Super a cura di Michele Aquila, ha a che fare con il mondo del ciclismo.

Piero è molto gentile e ci fa entrare ma lo dobbiamo aspettare un po’ perchè ci sono due clienti e stanno comprando una bicicletta molto bella. Ma lo sappiamo, in fondo siamo noi che lo disturbiamo in orari di lavoro.

Gli chiediamo di raccontarci come nasce il suo progetto. Sette anni e mezzo fa, dice, ai tempi lavorava in un'azienda farmaceutica, faceva tutt'altro e davano delle sostanziose buone uscite a chi se ne andava, ovviamente volevano ringiovanire l'ambiente, Piero ai tempi aveva quasi 50 anni per cui era nel gruppo di persone favorite. Aveva a disposizione questo spazio, era appassionato di bici e quindi ha pensato:” vabbè quasi quasi prendo i soldi e mi invento un’attività”.  Dopo qualche mese di travaglio ha deciso. Ha sistemato il locale e lo ha avviato, dall'inizio del 2011 questa attività è in piedi, è stato trasformare un passatempo in un lavoro per cui da un punto di vista è stato bello, ci dice, poi come tutti i lavori qualche volta fa un po' non dormire la notte o innervosire ma questo, ci dice sorridendo, penso che sia normale. Nel complesso è una cosa che lo diverte sempre, lo diverte ancora. E' un negozio di quartiere, una ciclofficina di quartiere per cui arrivano tante persone: dall' appassionato di bici alla signora che va in giro con la Graziellina e che va a fare la spesa, al vecchiettino che vuole farsi sistemar le ruote, quindi si lavora con persone molto differenti, dal giovane all'anziano e con attività molto diverse: dalla bella bici da sistemare, a chi cerca la bici da corsa, alla persona che arriva con la bicicletta completamente sgangherata e la vuole far risorgere. Talvolta , ci dice, con lavori così bisognerebbe fare anche un corso di psicologia accelerato perché arrivano dentro persone che veramente hanno bisogno di essere ascoltate più che di una riparazione alla bici, a loro serve di più un consulto, uno sfogo personale. Ride e dice che anche quello rende un pochettino varia la cosa. Si lavora tanto, spiega, perché lavorando in proprio serve stare dietro ai fornitori, alle fatture.

Il negozio è aperto dalle 9.30 alle 12.30 e dalle 15.30 alle 19.30 poi in realtà apre un po' prima e chiude un po'dopo a seconda delle necessità, teoricamente la domenica, ci dice, è chiuso, ma lì è chiuso sul serio, mentre il lunedì è un giorno di chiusura più teorico che reale nel senso che tiene chiuso la mattina per mettere un po' in ordine, sistemare gli arretrati ma poi in realtà il pomeriggio arriva qualcuno che ha bisogno di qualcosa e allora apre. Ci spiega che ha un periodo più tranquillo di altri, è il periodo da novembre a febbraio, da quando tolgono l'ora legale fino a tutto febbraio si lavora a ritmo più ridotto poi dall'inizio di marzo a tutto ottobre, se il tempo è bello, è un lavorare continuo, c'è movimento, e si fa un po’ fatica a tenere in ordine

Pietro le biciclette le assembla, vende sia biciclette già assemblate come la Bianchi ma può anche prendere un telaio e preparare una bici a seconda di come la vuole il cliente, ci mostra appesa al muro una bici a scatto fisso e ci dice che vanno molto di moda adesso a Milano, quella bici può essere montata come uno vuole, e può decidere i colori. Bussano alla porta, anche se siamo chiusi dentro a chiave. Entra una persona, chiede una cosa, noi attendiamo nel terrazzino fronte Martesana e ci godiamo il paesaggio che da quel punto di vista merita molto.

Gli chiediamo se è conosciuto solo nel quartiere, Piero ci dice che si, ma poi ci sono anche le persone di passaggio, avendo la visibilità sulla ciclabile tante volte ci sono persone che magari forano e quindi telefonano chiedendo come si fa ad arrivare lì perché non vedono il ponte.

Chi viene una volta, dice, spesso ritorna per cui si crea anche una certa consuetudine con un gruppo di clienti che sono poi abbastanza stabili o magari c’è il cliente che viene dall’altra parte della città, così lui si organizza per stargli dietro un'oretta il tempo che ha bisogno in modo che poi può direttamente tornare. C'è comunque una componente di radicamento nel quartiere, quindi  il vecchiettino del bar piuttosto che le persone che abitano intorno e che usano la bicicletta per muoversi o anche quelli che magari passano spesso nella ciclabile poi si infilano dentro una volta che han capito la natura del posto.

Piero abita in quartiere dal 1996, prima abitava in Piazzale Istria. Gli chiediamo di descriverci il quartiere. Ci dice che è vero, ci sono molte persone che li i sono nate e cresciute. E’ un quartiere sostanzialmente popolare che ha avuto una grossa immigrazione, principalmente pugliese da gli anni 30 e 60 e adesso invece l’immigrazione è cambiata, perchè ci sono molti stranieri. Nel complesso è un quartiere tranquillo fatto di persone radicate, sembra di stare in un paese pur essendo a Milano.

Ci racconta che lo hanno coinvolto quelli di Ciclhobby, un’associazione di appassionati di bici che faceva feste in Via Padova. Lui faceva assistenza durante i tour di bicicletta, ma è da due anni che non fanno più quell’inziativa, spiega. Però conosce le attività del teatro della Martesana ad esempio, e del Parco Trotter. A volte, se lo chiamano, valuta in che modo partecipare, può essere utile anche un buono omaggio. Gli raccontiamo del progetto di Michele, gli spieghiamo che costruirà una circle line di 100 km attorno alla periferia. Sarebbe contento di aiutarci a scoprire punti e luoghi di realtà simili alla sua che potrebbero essere utili da intercettare nel passaggio.

Ultima domanda, siamo curiosi di capire se ha visto un cambiamento importante sull’utilizzo della bici a Milano. Ci dice che la sua percezione, anche confrontando i dati di Ciclobby, è che i ciclisti siano in aumento. Sono giovani e arrivano a Milano per studio e lavoro. La bici è economica, ed è pratica per la mobilità urbana e poi Milano è tutta in pianura!

Quinta tappa: La Scheggia

Lo salutiamo e lo lasciamo al suo lavoro, troviamo all’uscita una fila lunga di vecchietti un po’ arrabbiati per l’attesa. Ci scusiamo e ci avviamo verso la Martesana, dove aspettiamo Domenico Del Monte, della associazione La Scheggia.

Ci mettiamo in mezzo al prato, lo raggiungono la sua compagna e la loro bellissima bimba di pochi mesi che per tutta l’intervista catturerà la nostra attenzione più dell’intervistato, tanto è simpatica.

La Scheggia è un’ associazione culturale nata nel 2004 dopo aver vinto un bando del Comune di Milano per l’assegnazione di uno spazio. loro erano otto soci fondatori che, dodici anni fa, un po’ per malessere, ridiamo, un po' per voler far qualcosa insieme hanno deciso di partecipare e niente...L'hanno vinto!

Dopo averlo vinto si aprivano due strade o avrebbero aperto l'associazione nel quartiere Isola, che all'epoca non era ancora così trasformato, oppure in via Dolomiti, alla fine hanno scelto la Zona 2, non sanno ancora bene per quale motivo, ma questo li ha un po' segnati, perchè pensano sempre che magari a quest’ora all'Isola avrebbero fatto i soldi, invece…

Domenico continua il racconto, e ci spiega che dopo aver aperto lo spazio, quello che hanno tentato di fare sempre è stato organizzare le loro attività a favore di quartiere, facendo anche fatica all'inizio per farsi accettare perché sono stati visti quasi come un centro sociale, cioè i vicini gli dicevano "Ma qua gira la droga!" Insomma era ancora una Milano che si stava trasformando e un'associazione che apriva in un quartiere ha creato un po' di scompiglio,dopo di che hanno iniziato a lavorare tenendo aperta l'associazione durante le loro attività e quello che hanno sempre tentato di fare, riuscendoci in gran parte, è stato dare strumenti alle persone e al quartiere per realizzare delle attività. Non si sono mai posti come supercritici di cinema o altro, ognuno di lor veniva da campi diversi erano appassionati di cinema, certo,  ma erano talmente diversi che queste differenze tra loro hanno fatto sì che potessero creare degli strumenti per organizzare cose piuttosto che organizzarle loro in prima persona.

Milano stava cambiando, i cinema stavano chiudendo, la cultura stava pian piano andando verso la periferia e quindi era fondamentale avere un piccolo spazio con un bar, dove uno entrava e ci si conosceva, un luogo per bere una birra e un bicchiere di vino e con una piccolissima saletta cinematografica, che hanno realizzato in maniera artigianale. La scheggia era vista come qualcosa di veramente rivoluzionario, tant'è che sono iniziati a passare all'epoca sia sconosciuti ma anche critici che poi sono finiti in Rai, che hanno visto questo posto come un piccolo luogo indipendente dove realizzare delle rassegne che all'epoca era difficile trovare. Domenico è un fiume e ci rapisce nel racconto, è interessante quel che dice perchè è davvero una testimonianza forte di come Milano negli ultimi 6 anni sia cambiata in termini di produzione culturale dal basso.

Hanno continuato a realizzare non solo rassegne di cinema ma anche di musica o eventi legati al territorio che venivano sempre proposti da persone che gravitavano in zona, hanno fatto anche qualche collaborazione con il Comune di Milano quando era aperto il cinema Gnomo, avevano proposto delle rassegne, sono stati i primi a fare Dispersival che era il Festival del Film non distribuito in Italia e che ha avuto un servizio sul Tg3, poi per mancanza di fondi non sono  più riusciti a portarlo avanti però è stata un’ esperienza incredibile durata due anni.

Poi hanno fatto “Milano Wants to be indipendent” un altro festival realizzato in collaborazione con il Comune di Milano e hanno continuato fino al 2010 quando hanno deciso di lasciare la sede perché un po'erano cambiati, un po' perché era cambiata l’offerta su queste cossse.

Quando hanno iniziato a fare i Dispersival c'erano 70/80 persone ed era troppo piccolo il posto quindi serviva  un altro luogo. Ma quando hanno chiuso, solo la sede e non l'associazione sono iniziate a piovere delle proposte da vari luoghi per realizzare delle attività culturali in bar, piccoli spazi e così si sono resi conto che molti luoghi di Milano si sono ibridati, hanno cambiato faccia, il bar classico, ci dice, non esiste più sostitutio da vari posti trasversali. Da lì è nata la loro seconda attività, quella di organizzare rassegne o attività culturali itineranti in luoghi sì periferici ma dove appunto c'era mancanza di qualcosa. Il primo è stato lo Spazio Ligera in via Padova, hanno trasferito il loro cinema lì e hanno iniziato a fare delle rassegne di cinema italiano d'autore ogni mercoledì in una via di 4 km dove non c'è nulla la sera a parte la Ligera, e poi sono nate altre collaborazioni con la Santeria, con Cinemerende al sabato pomeriggio e ogni luogo dettava loro delle indicazioni e loro insieme costruivano una proposta che potesse essere adatta al pubblico che frequentava quel luogo, e insieme si sviluppavano progetti. Hanno iniziato a collaborare anche con il Cinema Beltrade un  punto di riferimento del quartiere,  per un paio d'anni fino che a dicembre dell'anno scorso ha avuto un grande exploit e ora finalmente è un cinema veramente di riferimento per il quartiere. E’ una grande soddisfazione questa per loro.

Quando hanno lasciato la sede  il loro progetto più ambizioso è stato quello di fare una rassegna di cinema all'aperto sull'Anfiteatro, perché è semplicemente un luogo in bellissimo parco dove c'è la Martesana, dove non succede mai nulla, che a noi  sembrava uno scenario importante e bello dove realizzare delle cose quindi sono alla quinta edizione di Cinemart ora anche in collaborazione con Elita lo hanno trasformato in “Smart week end” dove per 4 giorni c'è musica, djset live e poi alle 22.00 con il calar del sole ci sono proiezioni di film in collaborazione con altre realtà del territorio, con altri festival internazionali. Cinemart nasce dall'idea  di valorizzare l’ anfiteatro, ma anche di fare un festival cinematografico non solo per il quartiere ma per Milano, interessante per un pubblico ampio, un parlare attraverso la selezione dei film che possono vedere culture diverse, in lingua originale, adatti ad un pubblico di famiglie, scontrandosi anche con gli stereotipi che loro stessi si sono fatti ”se vogliamo fare film in lingua straniera, ma poi arriva una famiglia di cinesi che ci chiede perché non ci fate vedere film in italiano?”  La cosa difficile anche è quella di capire effettivamente quello che si sta facendo e se ha un impatto effettivo sul territorio per quei pochi giorni che un momento di aggregazione e di scambio può creare.

Gli chiediamo cosa significa fare un festival in un parco, è facile, che permessi ci vogliono, uno dei problemi che abbiamo riscontrato tante volte è la burocrazia, vale anche per loro?

Domenico ci conferma la difficoltà assoluta, ci vuole molta ostinazione, molta organizzazione per riuscire a fare un evento che non si ripieghi su se stesso e  non sia autoreferenziale, Cinemart richiede tantissime energie, tantissimi soldi da utilizzare. Il primo ostacolo è il Comune di Milano, lo sportello unico, la burocrazia una cosa Kafkiana. E’ una macchina difficilissima da portare al successo, ci sono pochissime facilitazioni se uno vuole fare un festival, e che non si capisca che una piccola associazione sta facendo un qualcosa di utile per il territorio e per la zona è tremendo. Loro hanno pagato ad esempio moltissimo soldi per l'occupazione del suolo pubblico. Con il consiglio di zona 2 hanno instaurato un dialogo, gli fanno un sacco di complimenti, Cinemart l'hanno sempre appoggiata, hanno anche ricevuto un finanziamento, adesso la giunta è cambiata chiaramente ma finalmente il dialogo c’è nel tentativo di creare un qualcosa che cresce negli anni facendolo diventare un appuntamento fisso importante per la zona. Il costo che ha l'organizzazione è alto, ci vuole un dispiegamento grosso di forze, ci dice, questo forse non si capisce da fuori ma bisogna lavorarci due o tre mesi minimo in anticipo ma noi speriamo sempre che se si vede un valore aggiunto che porta un'attività culturale nella zona ci siano dei canali preferenziali che l’Amministrazione concede. Il festival, inoltre, è nato all'inizio vincendo un bando della Cariplo per due anni quindi con un finanziamento al 50% che nei due anni complessivamente era un totale di 24.000 euro e molte sono le associazioni morte perché non sono riuscite a stare dietro alla rendicontazione del bando Cariplo.

Gli chiediamo come si vedono nel futuro, rispetto al cambiamento che Milano ha avuto in questo periodo, certo, anche se la burocrazia e i funzionari sono sempre gli stessi.


Domenico ci spiega che sono in una fase un po' particolare dove appunto, sono quasi dodici anni che è aperta la Scheggia e loro sono cambiati molto, tante persone, ci sono state varie trasformazioni quindi cioè noi vorrebbero portare avanti un progetto di interesse sul territorio in Martesana magari, ma non sono una società, potevano esserlo forse, magari se avessero creato una società di servizi che realizza eventi forse avrebbero perso alcune caratteristiche, ad ora sono incerti nel senso che hanno le forze per portare avanti questo progetto, e l’unione con Elita è stata molto importante in questo senso. Milano così viva non lo è stata da molto, ci dice, dal punto di vista delle attività culturali, dei luoghi, degli spazi aperti, delle sinergie di luoghi che aprono e di questo clima di distensione: prima in via Padova c'erano i carri armati, c'era il coprifuoco, c'era De Corato, via Padova adesso è diventata NoLo “cioè via Padova non è NoLo” però tutta la zona è illuminata da un riflettore puntato perché tutto il lavoro che è stato fatto, tutto il continuum che ha avuto questa zona ad un certo punto ha trovato un exploit e tutto il mondo ha scoperto che questa città, questa zona, è diventata la zona dei creativi e che c'è una rigenerazione urbana che soprattutto i giornalisti apprezzano.

E dal punto di vista dell’integrazione?

Certo, dice Domenico, ci sono problemi di decoro urbano se vuoi, alcune zone dove c'è più sporcizia, ci sono un paio di vie dove è meglio non passare ma le stesse cose succedono anche negli altri quartieri, le pratiche illegali avvengono ovunque. E poi, dice Siamo a Loreto,  non è una periferia, c’è la metropolitana è un centro per chi ci vive.

La chiacchierata con Domenico è stata molto interessante, ha toccato temi che riassumono molto bene quanto abbiamo ascoltato in altre zone.

Sesta tappa: La cascina Martesana

Ultima tappa, direzione Cascina Martesana. E’ stata una giornata densa 6 realtà in un giorni per noi sono tante e con ognuna ci piacerebbe spendere più tempo di quel che c’è.

Entriamo in uno spazio molto bello, molto frequentato da pubblici vari, e per Milano non è sempre scontato. In quella stessa sera stava per inaugurare una rassegna di AIR3, l’associazione italiana registi. In ogni parete venivano proiettati videoclip d’autore. Incontriamo Niccolò che ci fa accomodare nel giardino vicino all’orto.

La luce del sole è gialla e gli illumina il viso, lui si accende una sigaretta e inizia a ruota libera.

La Cascina Martesana si trova nel triangolo che si sviluppa tra il Naviglio Piccolo, Viale Monza e Via Padova, una zona di multiculturalità  e di tantissime espressioni diverse del genere umano, ci dice.  Questa zona ha ripreso vita dalle paure che praticamente quasi tutti gli abitanti del quartiere avevano, paure legate all'attraversamento del parco nelle ore notturne e la nascita della Cascina Martesana è stata fondamentale. Il progetto è un progetto ambizioso che vuole arrivare alla ristrutturazione dell’immobile della cascina che è ancora un rudere ripulito da loro e “apparecchiato”. Per arrivare a questo hanno deciso di affrontare un percorso che in Italia non si è mai affrontato, ma nel Nord Europa invece sì, ed è quello di unire all'interno dello spazio una gestione profit a una gestione no profit in sostanza c'è un'area pubblica che è un s.r.l. che si chiama Cascina Martesana che si occupa di far andare avanti la baracca e l’altra parte dello spazio è un luogo associativo dove si entra con tessera e dove non c'è vendita di nulla. Dove si preserva una concezione di ecologia, di turismo, e di cultura su tutto l'asse Martesana.

Il percorso è iniziato cinque anni fa, con l'acquisto dell’ immobile da un privato da parte di tre persone tra cui uno è lui e altri due soci Marchi, entrambi Marco.  Il primo anno è andato in pulizie perché l'immobile era abbandonato da 20 anni, diventandoo non solo una discarica abusiva da un lato, e un luogo di spaccio, prostituzione, abbandono di rifiuti anche un po'tossici, dall’altro. Dopo un anno di lavoro hanno eliminato 22 camionate “di merda si può dire?”.

Il posto ha finalmente avuto modo di riaprire i cancelli e sin da subito c'è stata una sinergia forte tra la parte profit e la parte no profit dove la no profit si occupava di creare contenuti culturali e incontri e di sviluppare la socialità tra le persone, convincerle ad uscire di casa, viversi uno spazio come se fosse il loro salotto a cielo aperto, il giardino di casa mancato. Mentre il bar si occupava di far sì che tutta la baracca funzionasse dal punto di vista economico e questa sinergia sin da subito ha preso piede infatti le attività dell'associazione hanno praticamente cambiato il volto del parco in pochissimo tempo, i numeri sono molto diventati importanti perché sono più di 15.000 i soci che sostengono le attività dell'associazione e che ogni anno rinnovano la loro quota associativa. Tra le varie attività importanti che l'associazione ha fatto c'è quella relativa allo spazio dove stiamo ascoltando Niccolò. E’ un giardino, ora, una discarica ieri, è uno spazio del Comune, purtroppo chiuso fra aree private, per cui è inaccessibile, per questo è stato lasciato all'abbandono e al degrado. Oggi è diventato invece un importantissima sede sociale per la zona dove si susseguono attività di tutti i tipi volte proprio alla coesione ma anche all'educazione della persona, quindi attività con gli orti, spettacoli, attività legate al benessere, all'alimentazione di un certo tipo e poi ci sono anche le attività culturali tipo lo spazio espositivo all'ingresso della Cascina Martesana che viene semplicemente concesso a chi lo vuole utilizzare attraverso un bando e se le persone hanno le caratteristiche e rispondono al tema presentato da noi, vengono accompagnate fino alla produzione della loro stessa mostra. Quindi l'associazione non solo si fa promotrice dello sviluppo creativo di un po' tutti, ma anche co-produttrice degli allestimenti per cercare di dar voce a chi non l'ha ancora avuta. Nello spazio associativo, un altro piccolo miracolo che ha creato la vita vera di questo luogo, è stata la griglia: il cuore pulsante della Cascina, il fuoco sempre acceso, che ha rinvigorito anche un po'nella gente questo bisogno di stare insieme, di ritualità. Tutti i soci possono in qualunque momento usufruire di questa possibilità portandosi il cibo e cucinandoselo come fosse il giardino di casa con il cielo in una Milano dove cielo se ne vede poco

In Cascina Martesana ci sono quasi una trentina di persone tra chi ci lavora dentro e chi ci lavora fuori. Anche Il palco della Cascina è a disposizione dei soci, chiunque è tesserato, vuole provare a proporsi con il suo gruppo, i suoi amici, il suo percorso artistico, viene calendarizzato e gli viene data voce e quindi non c'è una sorta di programmazione decisa a tavolino ma nasce in corso d'opera

L'inverno è un bel problema, ci spiega, perchèl luogo non è ancora urbanizzato e quindi non è allacciato alla rete fognaria per cui possono fare azioni solo temporanee ma quando saranno urbanizzati tutto cambierà.

D’inverno si fanno di più le attività organizzative, la pulizia,  ad esempio sotto la Cascina passa un canale, la Cascina Martesana nasce dalle ceneri della prima piscina pubblica a Milano, all'incrocio fra il naviglio piccolo e questa roggia voluta dalla famiglia Taverna a fine '800 gli abitanti del Comune di Gorla Primo scavarono e crearono una piscina, la prima piscina pubblica di Milano, i signori facevano il bagno lì, le signore sul naviglio alla Cascina Quadri (dove abbiamo incontrato il ciclista) perché era una cioccolateria.

La piscina si chiamava "El bagnin de Gorla" e da lì è nato anche il nome dello spazio espositivo. Riassumiamo:

La proprietà è di tre persone, ed è privata, mentre il giardino è pubblico perché è dato in concessione attraverso un bando del comune per la riappropriazione e risistemazione degli spazi e questo è a disposizione di tutti i soci dal lunedì al venerdì, nel fine settimana c'è l'apertura anche per gli altri.

E’ un lungo lavoro, ci spiega Niccolò, quello di convincimento per l’urbanizzazione dello spazio, loro sono all'interno del cosiddetto verde pubblico, intervengono tanti enti quindi è molto complesso.

Nel tempo la Cascina ha costruito tantissime relazioni.
Come la costruzione di un cassone insieme ai ragazzi del quartiere di 16/18 anni per permettere ai bambini fra i 5 e i 10 di coltivare perché è un'altezza giusta per loro. Poi c'era la scatola di legno progettata da tre studentesse di architettura, socie dell'associazione che per la laurea volevano realizzare la loro idea grazie a dei laboratori di autocostruzione aperti a chiunque volesse partecipare. Insomma ci dice, che basta partire da piccole idee e poi si cerca di fare squadra il più possibile, raccogliere più adepti, tirarsi su le maniche, e smerdarsi un pochino ma per fare le cose davvero.

Il nostro tour finisce così, ci dirigiamo verso il bar, prendiamo delle birre e ci godiamo i videoclip proiettati ovunque. Un tratto importante quello che in questo tour abbiamo percorso. Di sicuro un pezzo ricchissimo di città, dove, come sempre, vince la voglia di fare le cose per coprire bisogni a cui nessuno pensa.

Testo: Federica Verona
Trascrizione audio: Isabel Gizzarelli
Fotografie: Chiara Lainati e Diletta Sereni