Una lettera collettiva per Milano

Foto di Filippo Romano

Con questa lettera aperta alla città e a chi la governa e la governerà vogliamo attivare un esercizio collettivo di riflessione critica sulle narrazioni dominanti, le politiche e gli interventi che hanno contribuito a radicare l’immaginario di una Milano come città Modello in continua ascesa spesso però senza fare i conti, soprattutto in seguito a questo grande evento pandemico, con la ricaduta sociale, ambientale, economica e abitativa che un tale processo può generare diventando, per alcuni, insostenibile. 
Apriamo questa chiamata collettiva a partire dal nostro osservatorio per raccogliere e amplificare le voci di associazioni, gruppi informali, realtà di volontariato, cittadini e cittadine e più in generale di chi promuove azioni dal basso. L’obiettivo è creare uno spazio riflessivo polifonico e capace di articolare le declinazioni della trasformazione che investe Milano.

Il nostro "Modello Milano" : un laboratorio permanente per una città più giusta e inclusiva

Milano sta vivendo un momento importante nella ripresa della vita post Covid. 

Da una parte vediamo una città in continua crescita grazie alla sua grande trasformazione, iniziata con Expo e che ad oggi sembra continuare senza battute d’arresto. A testimonianza i cantieri che a Porta Nuova, City life, Cascina Merlata continuano a sorgere, nell’attesa di veder partire quelli delle grandi aree che ridisegneranno interi quartieri della città, a partire  dalla trasformazione degli Ex Scali ferroviari con Porta Romana che diventerà il Villaggio delle Olimpiadi, fino ai progetti vincitori di Reinventing city, il bando promosso da C40 per riqualificare aree dismesse da destinare a progetti di rigenerazione urbana e ambientale. 

Gli interventi di trasformazione sono tanti però  anche su scala più ridotta, dalla ristrutturazione dello spazio pubblico alle nuove piste ciclabili. In tutta la città si sono visti e si vedranno piccoli e grandi cantieri, anche stimolati dai sostegni all’economia arrivati per sostenere la ripresa post-pandemica.

Dall’altra parte viviamo una città che fatica ad emergere e, a volte a sopravvivere, ma che partecipa alla trasformazione di Milano adoperandosi per il suo cambiamento declinando il concetto di crescita in modi differenti. Una città della cura, delle relazioni capace di costruire capitale sociale e modelli di welfare dal basso che ha dimostrato innovazione e dinamismo anche a fronte della crisi che la pandemia ha aperto. Come tutte le crisi, anche quella attuale, ha esasperato le disuguaglianze che marcano il tessuto urbano di Milano e la polarizzazione che la caratterizza. Da una parte c’è chi vuole ricominciare da “dov’eravamo rimasti”, quasi rimuovendo la pandemia e il suo effetto congelante, e dall’altra c’è chi correva invece in una direzione differente e oggi si sente ancora più lontano ed escluso dalla “città vincente”.

Alla fine del 2020, infatti, in molti hanno perso il lavoro: il numero di famiglie che ha fatto richiesta delle misure di sostegno economico dell'INPS (reddito e pensione di cittadinanza) a Milano città metropolitana è cresciuto dell’85% (passando dalle 37.676 famiglie del 2019 alle 70.000 del 2020, pari alla metà delle richieste inoltrate da famiglie lombarde) e nell’ultimo anno solo poco più della metà ne ha beneficiato, numerose attività artigianali e commerciali hanno dovuto chiudere, solo a gennaio 2021 a Milano e nell’Hinterland erano circa 600 i commercianti costretti alla ritirata (Movimprese),il tasso di disoccupazione giovanile è arrivato al 22% (Assolombarda), mentre il tasso di dispersione scolastica in Lombardia è passato dal 12.6% al 15,7% (ragazzi dai 15 ai 24 anni, dato Regione Lombardia). Inoltre Milano è tra i 10 comuni italiani con più bambini e ragazzi stranieri (23%) e la segregazione scolastica è un processo che accentua le diseguaglianze sociali ed etniche. Tale fenomeno vede infatti, sempre di più la propensione degli italiani a iscrivere i propri figli in scuole a forte dominanza italiana escludendo a priori gli istituti, situati in periferia, caratterizzati da classi formate al 70% da studenti stranieri. Un trend che porta a una netta separazione tra gli alunni italiani provenienti da contesti agiati e quelli stranieri provenienti da situazioni precarie (True). Le diseguaglianze economiche della città sono state recentemente rese evidenti anche da un lavoro di Youtrend che ha costruito una mappatura della ricchezza di Milano mettendo in relazione la dichiarazione dei redditi e Cap della città. Ne affiora un’immagine urbana di grande diseguaglianza tra le popolazioni in termini economici. Se infatti nel centro di Milano un abitante su 6 dichiara un reddito superiore ai 120 mila euro annui, in quartieri come Quarto Oggiaro e Roserio, il reddito non supera i 18 mila euro. E’ la stessa Youtrend a dichiarare che Milano che non ha eguali in termini di diseguaglianze patrimoniali in Italia. 

A fronte di uno scenario così polarizzato, nel momento in cui finisce - speriamo tutti - la pandemia ed entra nel vivo la campagna elettorale e soprattutto la fase di rilancio dell’economia urbana, pensiamo sia il momento di provare a guardare con onestà ai rimossi e alle contraddizioni tra ciò che si racconta e la realtà attuale della città. Vogliamo dunque provare a promuovere un dibattito costruttivo che tenga conto di chi spesso non riesce a correre alla stessa velocità della trasformazione. 

La città che sale, e il suo narcisismo 

Quando si parla della trasformazione delle grandi aree della città, non si può non fare i conti con il rischio della gentrification. Il valore immobiliare di alcuni quartieri si alza come anche il costo della vita e si ha l’impressione che la narrazione, lo storytelling prevalente spesso sia solo utile per costruire scenari adatti alle operazioni immobiliari oppure ad aiutare campagne elettorali che, “dall’ossessione alle periferie”, ora puntano tutto sul rebranding dei “quartieri”. Sarebbe invece importante costruire la consapevolezza che una città e  un’economia, nella loro profonda complessità, si trasformano grazie soprattutto alla cura, alle relazioni e al capitale sociale che generano e riproducono molte associazioni e attivisti - tanti di questi giovani, non dimentichiamocelo. Tutto questo spesso rimane solo relegato al comparto “buone notizie” della stampa.

Quando si guarda a Nolo come modello di trasformazione per le periferie, ad esempio, spesso non si considera che Nolo, nata da una forte esperienza di comunità che si è costituita pian piano e formata su bisogni concreti a cui ha saputo dare risposta nella quotidianità e nel semplice scambio tra vicini, è diventata anche un modello da sfruttare, mimandolo e replicandolo, per accelerare i fenomeni di gentrificazione e massimizzare in breve tempo la bolla immobiliare, a tutto vantaggio degli operatori e della rendita.

In città, infatti, c’è stato un incremento dei prezzi al mq delle case, dal 2020, del 13,6 %. Dopo Nolo, sta arrivando il turno di Dergano, quartiere ricco di associazioni e attivismo dal basso, che si trova vicino alla futura area dello scalo di Farini che presto verrà trasformato, grazie al masterplan di Oma e Laboratorio Permanente. Molti sono i cartelli pubblicitari delle immobiliari che fanno riferimento al valore delle attività culturali e sociali delle associazioni presenti in zona e le case ormai non costano meno di 4000 euro al mq. 

E ancor più delicata è la situazione che si sta vivendo nel quartiere Giambellino - Lorenteggio dove è in corso la demolizione di 5 caseggiati di Aler e la ristrutturazione di 300 alloggi, grazie ad un piano di riqualificazione siglato tra Comune e Aler mentre tra poco inaugurerà la linea della M6 e all'orizzonte si profila l’intervento sullo Scalo Ferroviario sempre firmato dallo studio dell’archistar Rem Koolhaas, che darà vita ad un parco acquatico lineare. Grazie ad una gara internazionale sorgerà una nuova biblioteca, un parco culturale sito in un’area abbandonata, verranno risistemate le strade e piantumati alberi. 

Per quanto riguarda il contesto popolare restante, spesso non privo di condizioni critiche dal punto di vista sociale e strutturale, per le associazioni presenti - prima coinvolte in sede di redazione del masterplan, e poi ignorate -  diventa molto difficile farsi ascoltare per “redistribuire il valore generato dall'intervento urbanistico con progetti specifici perché i fondi sono stati deviati o frammentati” (Erika Lazzarino Domus).

La vita, in generale, diventerà inevitabilmente più costosa, senza contare che quelle periferie o quartieri, comunque si voglia chiamarli, convivono da anni con una povertà ingente e una crisi sociale da gestire. 

Chi gestisce la trasformazione della città? Apparentemente sembra che continui a prevalere la legge del libero mercato immobiliare e che l’attenzione pubblica al diritto dell’abitare, con tutti i suoi limiti, si concentri principalmente sulle situazioni estreme di povertà. La povertà si è diffusa ormai da tempo, con il Covid è cresciuta notevolmente, non esiste più solo quella assoluta e grave, molti di coloro che potevano permettersi di mantenere un affitto o anche una piccola proprietà prima dell’emergenza sanitaria, ora faticano sempre di più. E’ una povertà palpabile ma difficilmente imbrigliabile nelle vecchie categorie. Vale allora la pena chiedersi quale trasformazione sia auspicata, da chi, come e perchè. Preoccupano gli approcci top down alla trasformazione, troppo spesso incapaci di intercettare i bisogni e le competenze locali e includerle in strategie pubbliche che siano capaci di accrescere le conoscenze dei territori attraverso servizi adeguati. Mancano il coraggio di bonificare situazioni incancrenite, riqualificare parti del patrimonio di edilizia pubblica con interventi sostenibili pensando a servizi a misura tenendo conto delle nuove popolazioni che oggi hanno bisogno di casa spesso vivendo nella precarietà, ripensando le forme contrattuali rendendo più agile il turnover anche integrando un sistema di welfare funzionante che accompagni al lavoro e all’educazione finanziaria.

Non trasformare dall’alto, dunque, ma dar forma in termini di politiche e servizi agli sforzi delle realtà che vivono e lavorano le periferie. Un programma vero che guardi all’edilizia convenzionata e all’affitto e sia capace di dare risposta anche ai grandi numeri della popolazione precaria, a partita iva e che in questo anno difficile ha perso il lavoro ma anche a giovani che non riescono ad uscire di casa, che vogliono allargare il proprio nucleo familiare e a famiglie numerose. 

E il ruolo della città metropolitana?

Il rischio è che, aumentando i prezzi delle case, avvenga una spinta centrifuga che si orienta e orienterà sempre di più verso i centri della città metropolitana. La pandemia inoltre ha scoraggiato il turismo, il pendolarismo, l’arrivo in città dell’indotto studentesco (da febbraio 2020 a oggi la città ha perso circa 12.000 abitanti ) e, riguardando i dati che abbiamo citato in apertura di questo testo relativi al calo del Pil e all’aumento delle povertà e quindi delle diseguaglianze sociali, alcuni residenti anche pendolari hanno dovuto - o potuto e voluto - rivedere la loro permanenza in città, grazie al lavoro in smart working. Per questo è necessario fare i conti con l’alto rischio che, una volta ripresa la vita post pandemia, la città riprenda molto lentamente il suo ritmo attrattivo tenendosi il primato di città più costosa d’Italia senza la capacità di offrire redditi adeguati.  Il tutto, nella totale assenza di una politica territoriale e di un dibattito di senso sul futuro e sul ruolo che potrà ricoprire la città metropolitana in quanto luogo attrattivo e accessibile. Una città metropolitana che si sta trasformando in spazio di fuga dal centro urbano dove lavoratori e lavoratrici scelgono di stare, uno spazio che si sta configurando come il nuovo polmone verde e di produzione di servizi ambientali di Milano ma ancora in molti casi è poco connessa e poco ascoltata nei bisogni e nelle risorse.

Una città non barricata nel vecchio immaginario del “vincente” ma una città per tutti.

Una città come Milano,è una città in espansione e con un ruolo che deve guardare tanto al locale, quanto al nazionale e all’internazionale, nessuno può negarlo, ma proprio per questo richiede una visione complessa di lungo termine in cui si possa “conservare” la qualità della vita non solo dei suoi visitatori o dei suoi city users, degli investitori che la elevano, delle manifestazioni che ne fanno un’eccellenza a livello mondiale, ma anche e soprattutto di chi la abita tutti i giorni e di chi la abiterà tra 30 anni.

E’ importante che lavori per creare una città che pensi ai servizi come beni comuni, valorizzi le esperienze di chi fa promozione sociale e non assistenzialismo e guardi ai suoi margini e confini non per respingere chi ha meno  ma per costruire connessioni con la sua città metropolitana. Una città che sappia guardare ai bambini, alle donne, agli immigrati, agli anziani sia in relazione alle popolazioni più esposte a fragilità e discriminazione sia come soggetti attorno ai quali costruire nuovi paradigmi di sicurezza, alleanza sociale e mobilità immaginando spazi a misura dei più piccoli e lavorando per costruire dei nuovi tempi della città che possano impattare sui temi della conciliazione certo, per le donne, ma non solo. Una città capace di guardare ai temi dell’immigrazione in relazione al lavoro, alla casa e all’integrazione, pensando all’immigrazione come una grande risorsa.

Milano ha bisogno di una qualità dell’aria migliore, di un verde cittadino che sappia essere un vero polmone ecologico. La transizione energetica, ambientale e della mobilità non dovrà essere un pranzo di gala che ancora una volta rischierà di aumentare i divari e le diseguaglianze se non con uno sguardo a chi rimane escluso. Milano ha bisogno di spazi a disposizione per la cultura e la socialità a portata di tutti dove i cittadini e i giovani soprattutto possano respirare, immaginare e costruire il futuro, ha bisogno di poca burocrazia per promuovere attività spontanee, ha bisogno di essere semplicemente più bella. Ha bisogno di mantenere dei prezzi accessibili sia per quanto riguarda i servizi che l’abitare, ha bisogno di essere una città accogliente e di supporto anche per chi è solo e attenta, in un modo nuovo, alla salute mentale di chi non ce la fa.

E non deve diventare tutto come il centro, solo più ampio, ma deve essere una città per tutti composta da tanti piccoli epicentri ognuno con le sue virtù ma anche con le sue complessità, ognuno con i suoi servizi e con le sue opportunità di miglioramento senza denaturare la storia, il carattere forte che questa città ha e sa mantenere.

Serve una visione che generi politiche pubbliche che sappiano guidare anche a livello nazionale un ragionamento serio sulla questione “casa”, verde, accessibilità agli spazi pubblici e servono degli spazi di scambio, di formazione e di ascolto.

A questa città serve un laboratorio di formazione permanente, serve un’idea di futuro.
E per quell’idea di futuro, se lo ritenete, noi siamo disposti ad unirci per costruirla insieme.

Se vuoi contribuire puoi compilare questo form  inserendo il tuo nome e cognome, l'organizzazione di cui fai parte. Il testo non deve superare le 1000 battute

Immagine di @Filippo Romano

 

B-Cam cooperativa sociale

L'analisi presentata è condivisibile, le domande poste sono numerose e non semplici anche se in gran parte centrate. Avremmo bisogno di dare spazio e tempo a "dialoghi" con persone e realtà impegnate, consapevolmente o meno, a perseguire la "strategia della città a 15 minuti" prendendola sul serio come opzione per accompagnare e valorizzare le specificità dei quartieri. Una strategia da perseguire in maniera coerente e graduale tanto "dal basso" quanto "dall'alto" (bottom-up e top-down). Servono come il pane politiche integrate che lavorino su base territoriale e che comportino un significativo cambio di passo da parte della macchina comunale e delle regole, risorse e prassi che ne presiedono il funzionamento.
Penso a persone e organizzazioni attive in vari campi impegnate nel coltivare questa sfida e capire come la loro attività potrebbe evolversi e radicarsi sempre di più nei loro quartieri e contesti locali a partire dalla definizione di alcuni parametri per misurare (quantitativamente e qualitativamente) le trasformazioni necessarie.
Penso ad ambiti di accessibilità locale primaria e non come casa, lavoro, prevenzione e promozione della salute, dipendenze, psichiatria e servizi di sostegno psicologico, immigrazione, spazi pubblici, cultura diffusa (urban art, street art...), sport, sussidiarietà, alimentazione (consumo, produzione e distribuzione di cibo), informazione/comunicazione di quartiere, commercio locale, sicurezza di prossimità, verde pubblico, scuole aperte, riuso e gestione del ciclo dei rifiuti.
Forse dentro a questa sfida i Municipi potrebbero avere la loro voce così come la possibilità di attivare Consulte di Quartiere (penso alla scala degli 88 NIL) che sappiano pragmaticamente porre questioni locali nell'ottica strategica della città a 15 minuti.

Associazione Compagnia dell’anello: spazi sociali per la convivenza culturale, economia di riciclo e piantumazione di aree verdi

E’ innegabile, troppo spesso ultimamente abbiamo ascoltato le parole che ci danno un immagine di un economia milanese legata agli andamenti di sponsor, turismo e ogni sorta di analoghi finanziamenti speranzosi.

Il covid ha messo in rilievo la fragilità delle entrate derivanti dal turismo. Gli sponsor, che per loro natura hanno l’obbiettivo di generare profitto; a fronte di investimenti presentano come contropartita alle amministrazioni richieste spesso incompatibili con chi ha a cuore un’idea di città più sobria e sostenibile.

E’ proprio la visione di una metropoli basata sulla sostenibilità economica che viene spesso a mancare nella nostra città. Puntare a creare principalmente quartieri più ricchi, allontana sempre più dal centro città i meno abbienti e conseguentemente scema la “sensibilità di vicinanza” verso questi ultimi da parte dei più benestanti, che si ritrovano a vivere in quartieri unicamente agiati (isole felici).

Sarebbe sufficiente creare nei quartieri aree a prezzi più calmierati per ricreare conseguentemente un commercio equilibrato, rivolto sia a chi ha più che meno disponibilità economiche.

Altrettanta buona cosa, sarebbe il dedicare spazi sociali distribuiti nella metropoli, favorendo così la convivenza culturale di persone più o meno ricche.

Milano d’altra parte è nata su tali radici, laddove fin i ritrovi più eccellenti come lo era l’allora Bar Giamaica, vedevano la frequentazione di persone/artisti più o meno agiati che si aiutavano a vicenda proprio perché si conoscevano convivendo.

Analogo discorso vale per l’ecologia. Non si piò pensare ad un’verde eccessivamente “strutturato”. In un’epoca di emergenza da respirazione sana, il rischio sarebbe frenare un recupero ambientale. Il primo problema oggi diviene generare aria buona; la cosa più immediata da fare è puntare a dimorare, su aree distribuite, quante più piante possibili e lasciare spazio all'evolversi della biodiversità crescente.

In maniera analoga si dovrebbe sempre più sensibilizzare la gente ad una cultura e cura del verde, in realtà sempre meno promossa e sponsorizzata oggigiorno. Per farlo, sarebbe sufficiente avvalersi delle associazioni che operano per l’ambiente che in realtà ogni giorno incontrano una moltitudine di difficoltà frenanti. Basti pensare che chi vuol curare uno spazio verde comunale, non solo deve farsi un mazzo tanto ma deve anche pensare all’onere dello stipulare una forma assicurativa.

Per ultimo sostenere un’economia di riciclo stimolerebbe la sensibilità di cui accennavo verso i più deboli. Cibo, apparecchiature informatiche, vestiti, giocattoli, oggigiorno quando non più utilizzati finiscono di routine in discarica. Si pensi in realtà quante persone potrebbero far uso di tali prodotti riciclati opportunamente ricondizionati, se il Comune mettesse a disposizione spazi aperti alla povera gente, di ricezione e stivaggio di materiale usato.

In poche parole questa è la mia visione di città; semplicemente quella dell' immaginare un vivere più semplice, partecipato e di convivenza ravvicinata di persone di fasce economiche differenti.


 

Gina Bruno, Nuovo Armenia. E'già tardi e non se ne parla abbastanza

Quando mi sono trasferita a Dergano nel 2009 avevo un bambino di tre mesi ed un bilocale appena acquistato con un mutuo a 140.000 euro in un quartiere in cui ero passata più volte e che sembrava un piccolo paese. Ero sola, non avevo conoscenze e nemmeno amiche sotto casa con cui condividere la fatica della maternità. Iniziai guardando giù nel mio cortile dove abitava Vilma che aveva tre bambini piccoli e che mi accolse e mi consigliò. Fu l’inizio di tutto, dell’idea di convivenze possibili, di ponti e amicizie che si possono trovare casualmente grazie al fatto di vivere in un quartiere abitato da persone che provengono da tutto il mondo. Gli agenti immobiliari quando ci mostravano gli appartamenti la prima cosa che cercavano di valorizzare era quanti pochi stranieri risiedessero nei condomini. Ne parlavamo spesso con quegli amici che poi hanno dato vita a Nuovo Armenia, volevamo dimostrare che dalle differenze si possono costruire percorsi di vera conoscenza e solidarietà e negli anni lo abbiamo fatto perché poi con Vilma, Beatriz, Jonny, Fernando, abbiamo costruito Cinema di Ringhiera. Insieme, mettendo ognuno quello che sapeva e che poteva. Nel nostro gruppo di lavoro è sempre stato chiarissimo che una narrazione rispettosa dell’abitare un territorio, delle migrazioni, della costruzione dell’identità può avvenire solo costruendo discorsi insieme e accettando che anche chi è in condizioni sociali, economiche e culturali svantaggiate ha grandi visioni che sono utili alla società e che un agorà veramente democratico non deve perdere le voci di chi in città è più fragile. Con questi presupposti siamo entrati in via Livigno 9 ed abbiamo iniziato una rigenerazione a base culturale di uno spazio abbandonato e lo abbiamo fatto con un processo di partecipazione che ha chiamato alle armi proprio quelle persone con cui si erano costruire relazioni di vicinato. Sono stati anni molto difficili ma anche molto fertili ed oggi questo lavoro ha portato frutti ed il quartiere è più bello, è un quartiere dove trovi tutto, ora ha anche un cinema grazie a noi. Ma in questo quartiere non ci resteremo a lungo, la mia famiglia è cresciuta e devo vendere il mio bilocale ma non posso ricomprare qui perché quello che abbiamo creato è diventato un boomerang, le case costano troppo per noi che siamo rimasti quello che eravamo, attivisti culturali precari e costano care anche per Vilma che abita ancora sotto casa mia con tre figli alle superiori e i genitori anziani.

Cosa fare? Non lo so, so solo che è già tardi e che non se ne parla abbastanza.

Terzo Paesaggio: un piano strutturale per l’economia generativa

Terzo Paesaggio c'è, per dare luogo a un laboratorio permanente sulla città di Milano, per "stare nel problema", come osserva Donna Haraway.

Milano nonostante la narrazione sarà per molto tempo ancora una città a piú velocità e carica di contraddizioni.
Le operazioni dell'alta finanza continueranno a trasformare brani di città sempre piú vasti, secondo una logica estrattiva che mira a produrre ricchezza per pochi: gli azionisti di banche, assicurazioni, costruttori che per la natura stessa della propria missione, non possono che essere distanti dalla vita vitale di quei luoghi.

Tuttavia accanto a questa opzione estrattiva, dai bordi della città si espande un altro modello di fare città, piú orientato alla vita, alle comunità, ai luoghi. Questo modello di tipo generativo, tenta anche di ridisegnare l'architettura proprietaria delle organizzazioni, coinvolgendo sempre piú le comunità all'interno.

Queste esperienze generative si stanno espandendo in tutto il globo, indicano che il capitale può essere un alleato della vita, delle comunità, con impatti positivi sulla felicità delle persone e dell'ambiente, ridefiniti come parte dello stesso sistema Gaia.

Sono tutte quelle esperienze che sempre piú assumono la forma di imprese sociali, benefit corporation, ma anche Community Land Trust, foreste comuni, comunità energetiche... che, al di là dello statuto e del claim, hanno saputo ridisegnare la propria architettura proprietaria, ponendo le comunità al centro.

Per "stare nel problema", che a Milano vuol dire un sacco di cose, ma sicuramente azioni urgenti per migliorare la qualità dell'aria, l'accesso alla casa, le dotazioni di spazio pubblico, abbiamo bisogno di dare vero e ampio spazio alle comunità, dunque abilitare le esperienze di economia generativa, non piú come pratiche residuali destinate all'occasionalità, spesso eroiche, bensì come progetto economico di punta, Politico, per il rilancio della vitalità della città.

Milano chiede un piano strutturale per l'economia generativa, con un Assessorato e risorse dedicate, per accelerare e sviluppare l'accesso al patrimonio pubblico dismesso, la co-progettazione, i partenariati pubblico-privati, il crowdfunding civico...

Non capire questo significa perdere gradi di fertilità e consegnare la città alla monocoltura estrattiva.

Silvia Baldini Beatrice Radogna, Mitades. Co-responsabilità dei servizi tra pubblico e privato

Noi crediamo a una maggiore co-responsabilità dei servizi tra pubblico e privato ma le istituzioni e le grandi organizzazioni del Terzo Settore che gestiscono la maggior parte dei servizi e che fanno parte del “sistema” devono accogliere i cambiamenti e le sperimentazioni. Per questo devono essere più presenti localmente nei territori.

Il tema dei servizi, in particolare quelli ai minori, alle donne, ai genitori, è ciò che più sta a cuore a Mitades e desideriamo che anche Milano ne abbia cura con particolare attenzione. Nei mesi pandemici e post pandemici è emersa con tutta la sua gravità la questione della salute, psicologica oltre che fisica, sono state numerose le persone che con la crisi sanitaria hanno visto peggiorare le loro condizioni. Noi li abbiamo incontrati, li conosciamo, li vediamo: minori con maggiori difficoltà evolutive, famiglie con problematiche economiche e abitative gravi, difficoltà relazionali e di conciliazione sempre più difficili da gestire.

Noi la rigenerazione la facciamo stando vicino a queste persone, mantenendo le relazioni anche a distanza ed essendo presenti localmente ogni giorno. Anche i servizi, educativi, sociali e socio-sanitari, dovrebbero tornare a essere più di prossimità. La territorialità è un valore perché fa conoscere caratteristiche, risorse e limiti di una porzione di territorio, di una data popolazione, di una certa comunità e sarebbe positivo se dentro ogni porzione di territorio si tornasse a convivere tra cittadini, associazionismo e istituzioni (in molte periferie sono assenti Istituzioni pubbliche come le neuropsichiatrie, i consultori e a volte ahimé anche i servizi educativi come i nidi: la nostra Milano, pur tra le migliori in Italia in tal senso, è ancora lontana dalla copertura della richiesta e solo 1 su 3 dei minori in età nido trova posto nei nidi pubblici milanesi)

L’associazionismo si attiva e risponde anche a bisogni come quelli educativi per minori da 0 a 3 anni. Ma l’innovazione sperimentata dai tanti vari progetti non riesce poi ad essere presa sul serio e considerata come motore del cambiamento. Non si trovano interlocutori adeguati o sufficientemente responsabili, e coraggiosi, da prendere sul serio un progetto del TS ben fatto e riuscito (anche se adeguatamente valutato!) per metterlo a sistema. C’è un gap tra il mondo del Terzo Settore, soprattutto quello più locale e territoriale (non tanto quello dei grandi ETS accreditati al Comune che reggono tutto il peso della cura di persone e servizi dell’intera città e che in un certo modo sono essi stessi parte del sistema) e il governo della città. Forse perché l’associazionismo non finisca per favorire le logiche malate della nostra città dovrebbe esso stesso poter essere più protagonista e attore del cambiamento: la co-responsabilità si può stipulare scrivendo degli accordi nero-su-bianco, ma va anche costruita e agita insieme nel quotidiano. La territorialità, anche delle Istituzioni che dovrebbero essere più capillari, può essere una soluzione.

 

Anna Serlenga, Milano Mediterranea. Amministrazione pubblica e rigenerazione umana

Come piccola realtà neonata nel mondo dell’associazionismo milanese, ci sentiamo di voler ragionare sulla relazione che l’amministrazione pubblica può avere nei confronti del lavoro di rigenerazione umana ( e urbana ) che svolgiamo, spesso senza tutele né economie.

Un piccolo esempio. Siamo una realtà che è stata finanziata ( e incubata ) dal Comune di Milano per lavorare in un quartiere a alta densità migratoria mista a un grande problema legato all’abitare e all’occupazione come il Giambellino - Lorenteggio.

Un territorio complesso, ma sicuramente ricco di realtà che, dal basso, lavorano per il suo miglioramento e la sostenibilità del vivere quotidiano.

Milano Mediterranea si inserisce quindi in un tessuto ricco in termini di relazioni, scambio mutuale e possibilità di co-produzione, con l’idea di rendere protagonisti/e i cittadini/e attraverso un lavoro di co-progettazione dell’offerta culturale e co-produzione di progetti artistici partecipati, affiancati da formazione gratuite per giovani e adolescenti del quartiere.

Per realizzare questo ambizioso progetto, abbiamo scelto, come moltissime altre realtà, di lavorare ai limiti dell’auto-sfruttamento, chiedendo all’amministrazione pubblica di facilitarci il compito, dove possibile, ad esempio: nella concessione d’uso di spazi pubblici a titolo gratuito e con agilità burocratica; nella messa a disposizione di risorse tecniche e materiali come spazi pubblicitari gratuiti; nella diffusione delle attività nei suoi canali di comunicazione; nella mobilitazione di ulteriori risorse partecipando a bandi in partenariato.

Un primo elemento fondamentale: tutti i contributi pubblici che vengono erogati sono a saldo delle spese sostenute, ovvero per le piccole realtà che non possiedono fondi propri, è necessario aprire fidi bancari con tassi di interesse al 6% al minimo, indebitandosi fin dal proprio nascere per poter accedere al contributo stanziato in loro favore.

Altro punto dolente: per la richiesta di permessi (spazio pubblico, verde pubblico, pubblico spettacolo, tra gli altri) i tempi e le modalità sono bibliche e complesse, scoraggiando anche i più avventurieri.

Tornando alla premessa, ovvero per progetti che il Comune stesso decide di sostenere e di far nascere e crescere per lavorare in quei territori dove spesso mancano le istituzioni pubbliche e il terzo settore si fa carico di supplire a questo vuoto, avremmo qualche proposta, molto elementare ma che permetterebbe la crescita virtuosa di realtà che oggi esistono solo in virtù di una forte motivazione dei propri aderenti, costretti a fare altri 3 lavori per sopravvivere e a dedicare il poco tempo residuo a quello che vorrebbero fosse la prima e vera occupazione, così utile ai territori.

Contributi pubblici anticipati, ovvero almeno il 50% del contributo versato in anticipo ai progetti. Questo eviterebbe il fiorire di investitori bancari ma aiuterebbe decisamente le piccole realtà a crescere e lavorare con serenità.

 

Guido Tassinari. Il polmone verde

Milano ha una foresta (l'unica, le altre aree "verdi" non sono comparabili), non protetta, ma anzi da trent'anni sotto minaccia di distruzione da parte del Comune e del Politecnico (distruzione in parte già avvenuta per editto delle ultime due amministrazioni): migliaia di alberi, fra i cinque e gli ottomila, di almeno venti specie diverse; si trova fra Bovisa Villapizzone e Bovisasca. Misconosciuta ma con una forte rete di vicinato che la difende, e che per primo ho chiamato "la goccia" (negli anni persino Comune e Politecnico hanno adottato la definizione) per la sua conformità guardata dall'alto dei gasometri che la sovrastano.

Da dieci anni porto (non sono il solo, i comitati dei quartieri limitrofi sono attivissimi) illegalmente (il Comune l'ha chiuso d'autorità per poterne fare quel cche vuole, col Polit) gruppi a visitare questa foresta, tesoro di tutti noi, e polmone antismog inestimabile.

 

 

Annibale Osti, MiRaggio. La gentrification distribuisce lavoro

Trovo il vostro documento molto condivisibile, però troppo lungo e tendenzialmente, poco incisivo, cioè manca di radicalità. La trasformazione di milano verso una città inclusiva e maggiormente egualitaria ha un solo nemico: la rendita (immobiliare in primis, ma anche in generale di posizionamento ed immagine) nella vostra descrizione - troppo "ma-anchista", sembrano esistere due realtà parallele: la città alta e, semi-nascosta, la città bassa e che si tratti di traghettare, con opportuni strumenti fiscali o normativi, la seconda verso la prima. Ma il modello di sviluppo di Milano terzo millennio (a differenza degli anni 50/60) funziona in quanto ci sono queste profonde diseguaglianze: edilizia, pulizie, servizi alla persona, ristorazione, funzionano in quanto ci sia una forza lavoro sottopagata e dequalificata. Senza l'una, non esisterebbe l'altra! questo nodo emerge nella vostra esposizione quando si parla della vituperata gentrification che io non considero un fenomeno negativo e che auspico anche per il mio personale e modesto investimento immobiliare ;-) se la rendita immobiliare è il motore, la gentrification è il prodotto che distribuisce lavoro, ricchezza (magari sotto forma di microrendite, vedi i "giovani" che affittano le case acquistate dai genitori per favorirne l’uscita di casa). La risposta dovrebbe essere in un forte investimento e riconversione verso attività produttive, ad alto valore aggiunto. No allo smantellamento degli opifici a favore dei loft.

 

Niccolò Franchi, Cascina Martesana Prendersi cura del tessuto umano

 

Sono passati appena 7 anni da quando Cascina Martesana ha iniziato a prendersi cura del Parco e del suo tessuto umano, inventando un nuovo modo d'inclusività, rivoluzionando completamente la vivibilità della zona, creando coesione sociale attraverso la cultura condivisa e partecipata. Prima non c'era niente, solo degrado e scene di delinquenza, gli stessi cittadini non vivevano il proprio Parco come luogo d'incontro, ma piuttosto di passaggio. Ora è tutto cambiato! Dal punto di vista di chi mette in campo le proprie migliori energie sette anni sono un attimo, sono un investimento a lungo termine, sono quel che serve per permettere alle buone intenzioni di radicarsi indissolubilmente alla terra. Certo per una città che va a mille all'ora sette anni sono uno spreco di tempo e denaro, allora è troppo facile scegliere la via della speculazione edilizia ed immobiliare per 'riqualificare le periferie' spostando i problemi più in là e guadagnandoci su. Non si può pensare di spostare o nascondere i problemi delle periferie sotto un tappeto di cemento fresco. Il lavoro quotidiano di chi fa presidio socio-culturale in questi luoghi è lo strumento di rivalsa, porta la luce, una nuova luce, dove imperversava il buio. Certo non genera denaro nell'immediato, ma chi ha mai detto che la vera ricchezza siano i soldi. Qui tutti i giorni ci prendiamo cura di luoghi e persone, si favorisce il protagonismo e la condivisione. Qui si cura con la bellezza e la partecipazione, promuovendo unità e favorendo l'incontro con la diversità. Non esistono nè target nè beneficiari primari, qui si lavora con tutti e per tutti. Alimentare lo spirito e nutrire le menti come cura alla sensazione di marginalità e abbandono. Centrificare la periferia attraverso azioni concrete di diffusione culturale. Essere un presidio socio-culturale polifunzionale è una responsabiltà che quotidianamente ci assumiamo con orgoglio e fatica, e la giungla della burocrazia italiana, per quanto intricata, non ci spaventa perchè crediamo in quel che facciamo, perchè conosciamo di persona i nostri 25000 associati per i quali operiamo. Continueremo a farlo con la stessa passione e dedizione, continuando però a chiederci quando le realtà che curano gli animi degli abitanti delle periferie verranno riconosciute come meritano, non solo dalle migliaia di cittadini che le frequentano, ma anche dalla troppo distratta amministrazione.

Angelo Miotto, Milano siamo noi

Milano siamo noi. Quello che ho usato come titolo per un saggio corale, però, è un concetto vero, ma non rappresenta la situazione attuale. Noi siamo i cittadini di Milano, anche quelli che non si interessano della città, che la sfruttano, la strizzano, la spremono. Ma noi siamo soprattutti quelli che restano un passo indietro, anche più di uno in realtà. Questa città non è vero che non si attivi anche con e per loro, ma il racconto che si vuole propagandare è così calorico e saturo di zuccheri da risultare quasi nauseabondo. A cosa serve una città 'vincente'? Perché devo essere 'più di prima Milano'? Si parla molto della collaborazione fra pubblico e privato, ma non credo che il termine collaborazione sia pertinente. Dovremmo, forse, stabilire una preminenza di chi amministra un bene come la città di tutti, rispetto a degli interessi privati. La città sta cambiando solo forma e la mutazione riguarda anche una bolla immobiliare e dei prezzi al consumo. E crea muri separatori di classe. Il pubblico deve essere capace di calmierare, di avere il pallino in mano, dentro un racconto della città che è tutto da studiare e reinventare. Sono cresciuto con la capitale economica. Poi la capitale Morale. Poi la città è cambiata e la narrazione si è persa e son rimasti gli slogan, c'è anche FibrillaMI, giuro che l'ho visto. Io vorrei una città di eguali possibilità, poi siamo tutte diverse e diversi, e come ho scritto ad alcuni non gliene frega proprio nulla, di niente, della città e dei cittadini. Ma se vogliamo avere un ruolo di avanguardia, che spesso Milano ha avuto, dobbiamo avere il coraggio di sperimentare al di fuori delle cerchie delle pacche sulle spalle e spronando l'amministrazione a sperimentare a sua volta un ruolo di paciere sociale, che livella le diseguaglianze che urlano e che sia capace di mettere su un grande pannello pubblicitario di Milano e su Milano anche la foto di un giorno qualsiasi per le strade di una periferia. Non abbiamo paura del reale, se abbiamo una visione.

Valentina Sachero. Biblioteche come granai pubblici

Mi piacerebbe ribaltare alcune narrazioni utilizzando degli indicatori diversi. 1) passare dalla misura della qualità di una scuola rispetto alla percentuale di alunni stranieri (cosa significa “alunni stranieri”? che non parlano italiano? Che sono figli di genitori nati in altri paesi?) al suo grado di “biodiversità”: numero di nazionalità delle famiglie presenti. E’ una misura di ricchezza, che non contrappone due blocchi (peraltro astratti) e crea una minoranza, ma fa emergere la variegata composizione di quella comunità scolastica. Questa biodiversità è garantita solo in presenza di politiche pubbliche dell’abitare che neutralizzino la gentrificazione. 2) Riconoscere le biblioteche come granai pubblici. Sono un presidio di cultura, protezione, accoglienza, socialità. Quindi anche sicurezza. Nelle biblioteche rionali si studia, legge il giornale, si riposa al caldo, chatta col Bangladesh, guardano film. Si realizzano - spesso su iniziativa volontaria di bibliotecari/e e cittadini - eventi, corsi, mostre, spettacoli, gruppi di lettura. Contiamole queste cose. E riconosciamo al sistema bibliotecario (spazi e personale) il valore che ha e che produce. 3) Cosa si intende per periferia: la distanza dal centro non è più una unità di misura significativa o sufficiente. Il confine amministrativo della città neanche. Si smetta di chiamare periferia ciò che non lo è più e si inizi invece a ragionare su quanto siamo connessi o disconnessi con il Comune a cui viviamo accanto.

Gabriele Rabaiotti, nuovi sguardi per il laboratorio permanente

Gentili, mi trovo a condividere molte delle vostre riflessioni. Forse con accenti un poco differenti punto alla sostanza segnalandovi che l'idea di costituire un laboratorio di formazione permanente mi sembra di grande interesse, specialmente se attento a coinvolgere nuovi sguardi e nuove voci nella città (penso alle tante e ai tanti giovani che si sono avvicinati a vario titolo alla "politica" in questo appuntamento elettorale).

Sara Travaglini (Dar Casa) Per liberare i progetti basterebbe non ostacolarli

 

Non ero sicura di essere in grado di proporre una riflessione compiuta sulle tante questioni che la lettera di Super solleva. Ma come spesso accade, sono le esperienze, anche quelle negative, a insegnarci qualcosa: solo attraverso il fare e la relazione impariamo a riflettere sulla città e, se riusciamo, anche a proporre soluzioni. E così, ecco l’esperienza formativa. Sabato 18 settembre ha aperto la Biblioteca Solidale di via Demonte 8 (quartiere Ca’ granda). Grazie ai ragazzi e alle ragazze di Ospitalità Solidale e agli abitanti del quartiere, in collaborazione con il circuito delle biblioteche di condominio milanesi, uno spazio comune in un caseggiato popolare per tre giorni alla settimana ospita una biblioteca, rendendo possibile l’accesso a libri, fumetti, dvd raccolti grazie a una solida rete di abitanti. Uno spazio anche di aggregazione, pensato per condividere e organizzare eventi, corsi e incontri. Un nuovo spazio che proprio sabato doveva essere inaugurato: scrivo “doveva” perché la procedura per realizzare eventi nei cortili delle case di proprietà del Comune di Milano a luglio è cambiata (e noi, colpevolmente, l’abbiamo scoperto in ritardo). E quindi MM (l’ente gestore del patrimonio pubblico di proprietà del Comune) può rilasciare l’autorizzazione solo a fronte della esclusiva partecipazione dei residenti in quel civico. Se è prevista la partecipazione anche di un solo esterno, il Comune prevede che si debba passare dal SUEV con costi, tempi e documentazione del tutto sproporzionati a un’iniziativa di cortile. Che sicuramente non ha le dimensioni di un evento pubblico come quelli che la Milano attrattiva ci propone, anche se diversamente da quelli risponde a una domanda davvero pubblica e popolare di aggregazione, cultura e socialità. In alternativa l’inaugurazione si sarebbe potuta svolgere esclusivamente all’interno dello spazio chiuso: in epoca Covid, una decisione assurda, che avrebbe limitato molto il numero dei partecipanti, oltre che aumentato il rischio di assembramenti. Se i progetti nei quartieri sono chiamati ad animare i cortili, non è pensabile ingessare modalità e procedure per la realizzazione degli eventi. Soprattutto nelle case pubbliche, dove risorse, energie e opportunità ci sono, ma a fronte di queste condizioni rischiano di esaurire. Una delle domande che la riflessione di Super solleva è quali meccanismi di tutela si possono disegnare per salvaguardare il lavoro territoriale delle realtà di quartiere: io credo che sia sufficiente non ostacolarle. Purtroppo in questo caso la soluzione ancora non l’abbiamo trovata, ma ci stiamo impegnando a cercarla.

Comitato la Goccia. Un'altra idea di città: più verde, sostenibile e attenta ai bisogni

Milano è una città che ha sempre posto in secondo piano la questione ambientale. Il suo sviluppo è stato per la maggior parte accompagnato da un approccio che mira a sottomettere la natura, vedendo i boschi urbani, le aree verdi e i terreni agricoli come terreno da cui estrarre valore tramite la rendita immobiliare ed investimenti di capitale. Lo ha dimostrato anche in tempi recenti con ciò che è avvenuto al Parco Bassini, raso al suolo per fare posto ad un nuovo edificio del Politecnico, oppure con il giardino Baiamonti, dove verrà costruita la seconda piramide di Herzog anziché lasciare l'area come spazio verde. In vista della crisi ambientale di cui stiamo già osservando gli effetti, oppure semplicemente della necessità di ripensare il rapporto tra l'uomo e la natura (intesa nel senso più ampio, come ecosistema), come Comitato la Goccia ci battiamo perché l'area della Goccia in Bovisa non subisca la stessa triste sorte degli altri spazi verdi che sono stati deturpati in nome di uno sviluppo insostenibile. Vogliamo far conoscere il valore socio-ecologico che questa ex area industriale spontaneamente rinaturalizzata porta. Vogliamo che il Bosco la Goccia - oltre che un polmone in uno dei quartieri dove più mancano spazi verdi - diventi il punto di partenza per pensare collettivamente ad un'altra idea di città, più verde e sostenibile, attenta ai bisogni di chi la vive. Una città che non proceda senza sosta con un modello di crescita alienante per gli abitanti, di cui solo pochi beneficiano, ma che dia spazio anche a modi di vivere e fare esperienze oltre le logiche di profitto. Questa visione stiamo cercando di realizzarla nel Bosco. Abbiamo aperto dei sentieri, in modo non invasivo, per renderlo accessibile e per dare la possibilità a chi entra di fare esperienza della natura presente, così diversa rispetto a quella di un parco progettato dall'uomo. Per destare ulteriormente la curiosità ad entrarci, abbiamo coinvolto artisti da tutta Italia e dell'estero, che nel Maggio 2019 hanno installato lungo il percorso 20 opere d'arte (oggi sono 28), dando vita al Bosco di Sculture. Pensiamo che la salvaguardia di questo spazio come bosco urbano e laboratorio a cielo aperto sia uno dei capisaldi per ripensare la città nel periodo post-pandemico e di crisi ambientale. Significa reclamare l'importanza della natura in città (anche per il benessere di chi la vive) e rompere radicalmente con l'idea dello spazio urbano a solo uso e consumo della rendita immobiliare. Questo, secondo noi, è uno dei modi per immaginare una Milano realmente sostenibile ed inclusiva.

Davide Fassi: la cultura della resilienza passa dalle persone

 

La cultura della resilienza passa attraverso un sistema di conoscenze, opinioni, costumi e comportamenti che caratterizzano il sapere reagire all’inaspettato per creare nuovi equilibri. Quando è declinata all’innovazione sociale, le soluzioni che la supportano è da cercarsi nelle persone. Non tanto nei singoli individui ma nel modo in cui essi si raggruppano in forme di coesione, in comunità: associazioni, gruppi informali, cerchie di amici, abitanti di uno stesso condominio, di uno stesso quartiere. Sempre di più a Milano, questo coinvolgimento si traduce in progetto assumendo le caratteristiche di infrastruttura, portando cioè alla creazione delle condizioni fisiche, sociali, culturali ed economiche che permettono ad altri progetti e attività di emergere e prosperare. Riuscire a garantire queste dinamiche è compito anche della governance della città attraverso la dotazione di strumenti che sappiano cogliere il presente. Il bilancio partecipativo, i patti di collaborazione, i piani dei quartieri, strade e piazze aperte sono solo alcune delle possibilità di scardinare un modus operandi “dall’alto” che deve essere arricchito di nuovi attrezzi che mettano a dialogo tutti gli attori coinvolti in un processo. La concertazione decisionale e la messa terra di alcune soluzioni può e deve nascere da un confronto fra le nuove forme collaborative, le istituzioni, le forze dell’ordine, gli operatori pubblici per poter garantire il successo e la continuità delle buone pratiche.
 

Giulia Tosoni, I giovani ai margini del discorso pubblico

A Milano, come in tutte le aree metropolitane, la disuguaglianza economica e sociale è in stretta relazione con la disuguaglianza educativa. Chi nasce in una famiglia povera, con bassi livelli di istruzione, ha molte probabilità in più di abbandonare precocemente la scuola e di formare a sua volta una nuova famiglia povera. La pandemia ha messo in ulteriore evidenza come i giovani siano ai margini del discorso pubblico. Si interviene – nel migliore dei casi – con azioni che hanno i giovani come destinatari. D’altro canto nascono e fioriscono nei quartieri interessanti esperienze, spesso attorno a spazi ibridi o realtà del sociale, animate da famiglie, scuole, associazioni, cittadini, orientate al benessere di bambini e ragazzi, capaci di restituire loro spazio e voce, sia nell’individuazione dei bisogni che nella costruzione delle risposte. Si tratta per Milano non solo di raddoppiare gli sforzi per offrire servizi capillari e funzionanti, ma di ripensare il ruolo delle politiche educative e formative come politica di sviluppo urbano. Occorre considerare l’apprendimento - in tutte le sue forme - l’infrastruttura chiave di ogni progetto di sviluppo. La città può e deve agire come piattaforma in grado di orientare, sostenere e abilitare le reti già attive e quelle nascenti in favore dell’uguaglianza delle opportunità dei bambini e dei ragazzi. Uscendo in qualche modo dalla logica dei progetti, troppo frammentati e precari, anche quando esprimono grande qualità. Anche a questo può servire un laboratorio permanente.

Strumenti di prossimità per la cultura, Threes Productions

 

Threes Productions è un'impresa culturale che ha iniziato ad abitare gli spazi di Assab One a Cimiano nei pressi di via Padova poco prima dell’inizio della pandemia. Produciamo eventi lì nel quartiere, usando la nostra sede, così come altrove. Ci occupiamo di sostenere progetti artistici, anche di giovani artisti emergenti, e di produrre contenuti che toccano i temi della sostenibilità ambientale e sociale, dell’arte con un focus sul suono e la musica. A Milano, così come altrove, lavoriamo per affermare il concetto di “abitare”. Per noi abitare significa prendersi cura, delle relazioni come dei luoghi, significa costruire e far sedimentare senso, proteggere l’identità e favorirne una evoluzione che esprima coerenza per chi è lì e vive i luoghi. Ma anche creare processi osmotici che permettano interscambi, aprano a nuove possibilità. Questo approccio crediamo potrebbe ridurre i fenomeni di gentrificazione, la speculazione delle agenzie immobiliari e creare benessere, valore diffuso senza che per forza questo si traduca nel guadagno di pochi. All’amministrazione pubblica chiediamo di dotarsi e utilizzare “strumenti di prossimità” - le associazioni, le realtà che producono e programmano cultura - numerosi e già presenti sui quartieri, per operare con loro delle strategie condivise, gestire la trasformazione della città e imprimere soprattutto un cambio di passo e di direzione di cui è evidente l’urgenza.

Gianluca Ruggieri, La crescita della povertà energetica

Non ritengo di avere competenze ed esperienze per dire qualcosa di sensato da urbanista, diciamo così, quindi provo a inserire una considerazione marginale su un tema che credo nei prossimi anni sarà sempre più rilevante. Se da una parte è legittimo considerare i costi dell’affitto (o del mutuo) delle abitazioni, dall’altra non dobbiamo dimenticare i costi delle forniture energetiche (gas, teleriscaldamento ed elettricità) e dei trasporti. Gli osservatori vedono una povertà energetica crescente che si allarga dai temi tradizionali (in particolare i costi del riscaldamento) a quelli del raffrescamento estivo e quelli dei trasporti. In questa particolarissima stagione dell’autunno 2021 sappiamo che le bollette sono cresciute come mai in passato e almeno per i prossimi mesi sono destinate a mantenersi a livelli inediti. Chiaramente questo causa impatti più rilevanti soprattutto sulle fasce più deboli. Ovviamente questo fenomeno dovrebbe in prospettiva alimentare una transizione energetica ancora più rapida. Le criticità sono soprattutto sul COME questa transizione viene agita. Finora spesso gli interventi di finanziamento statale si sono tradotti in incentivi fiscali o all’acquisto che sono disegnati in modo da alimentare azioni di famiglie del ceto medio o benestanti: chi si occupa della transizione dei poveri? Un tema piccolo ma interessante è quello delle comunità energetiche. Ma manca lo spazio per approfondirlo. Grazie per la disponibilità!

Comitato sai che puoi? Cara Milano

 

Cara Milano, le elezioni da poco trascorse hanno sottolineato come tra le cittadine e cittadini che ti abitano ci siano sensibilità e speranza per il futuro, accompagnate in parte da incertezza e disorientamento. Per fortuna, le cittadine e cittadini che ti vivono hanno voluto ribadire la loro fiducia in un progetto amministrativo dai valori aperti e progressisti, dando larga fiducia a candidat@ e proposte giovani, non solo anagraficamente, e scommettendo sulla grande sfida dell’ecologismo e dell’ambientalismo. Però ci sono state molte tue cittadine e cittadini che hanno fatto la scelta di non votare, più della metà, il record da quando sei stata liberata nel Dopoguerra e da quando conosci la democrazia. Questo è un segnale dovuto a vari fattori, dalla penuria di proposte credibili alternative all’amministrazione uscente, fino a un certo disorientamento sociale, politico ed esistenziale, che ti attraversa. La pandemia ti ha di sicuro ferita grandemente, ed ha mostrato i limiti e le fragilità del modello con cui spesso ti vesti, mostrandoti come la città che corre, sempre indaffarata e attenta agli aspetti economici. Le tue cittadine e cittadini hanno mostrato un grande bisogno di sentirsi solidali tra loro, di recuperare valori solidi, e di attribuire molto valore alle relazioni vere e agli affetti a scapito delle apparenze, di cui ultimamente ti eri forse troppo nutrita. Cara nostra Milano, al tuo interno si percepisce una fase di travaglio, e mentre la tua testa è concentrata a ripartire con la frenesia, il traffico, l’economia e il denaro, il tuo ventre ed il tuo cuore sono già ad immaginare un modello diverso, dove il lavoro e la vita siano più compatibili con il benessere personale, e nel tuo cuore si sente la voglia di dare la possibilità a ogni tuo abitante di cercare la felicità nel modo che ritenga suo proprio, senza omologarsi a modelli e cliché che troppo spesso hai messo in mostra. Il modello collaborativo che ti abbiamo proposto con la campagna “Sai che puoi?” vuole essere proprio questo: vuole parlare alla tua testa ma anche al tuo cuore, intercettando lo smarrimento di tante tue cittadine e cittadini, iniettando nelle tue vene empatia e solidarietà per aiutarti a ripartire senza il rischio di precipitare nel narcisismo. Sentiamo l’urgenza ed il bisogno di aiutarti ad attraversare la nuova fase, mettendoti in gioco ancora una volta, valorizzando le differenze e le fragilità sociali, ma anche psicologiche e personali che ti abitano. Anche grazie alla piccola goccia che come Comitato Colibrì ci sentiamo di portare, siamo sicuri che saprai reinventarti nuovamente, scoprendoti comunità. Il mandato amministrativo che si apre sarà decisivo per interpretare queste pulsioni che ti attraversano, trovando un tuo equilibrio virtuoso che permetta a te e a tutte le cittadine e cittadini che porti dentro di te, di fiorire. Come Comitato Colibrì rafforzeremo la nostra azione in questo senso, sia come stimolo per gli eletti e le elette, sia come voce e amplificatore delle esperienze dal basso, per costruire insieme un ritratto di te che possa rappresentarti nella maniera più sincera e aderente a come sei veramente. In questo modo, una volta di più, potremmo insieme precorrere i tempi, e approcciarci a un modello diverso, più sostenibile e umano, adeguato al tempo nuovo che è già qui. Siamo e saremo a tua disposizione per tutto l’aiuto possibile in questo senso. Ti vogliamo bene. Un caro abbraccio

NoLo Social Destruct: qualche crepa nel rosato mondo di NoLo

Nolo Social Destruct, questo è il nome che ci è venuto in mente quella mattina. Più che distruggere, destrutturare. Destrutturare cosa? Una narrazione di quartiere che non ci corrisponde, che sentiamo piovuta dall'alto con conseguenze molto concrete, anche sulle nostre vite. Eravamo di fronte al Parco Trotter lato via Giacosa. Troviamo il muro di fronte al cancello completamente tappezzato dai manifesti della campagna Hyperlocal di Zero. Era l'apoteosi di NoLo. In questi manifesti venivano presentati i luoghi, le associazioni e i personaggi della zona, tutti sotto il cappello di NoLo. Via Padova? NoLo. Il Parco Trotter? NoLo. Anfiteatro Martesana? NoLo. Un marketig urbano aggressivo, quella foga di etichettare con superficialità luoghi che hanno una storia e una forte identità. Quei manifesti ci sono sembrati troppo, una invasione vera e propria. Così abbiamo deciso di fare sentire la nostra voce con la stessa strategia: comunicare sui muri, sui pali, sui social. Provare a mettere in mostra qualche crepa nel rosato mondo di NoLo. Abitiamo tra Viale Monza e Via Padova e ricordiamo bene come era questa zona prima di Expo, prima di NoLo. Era migliore? Forse no. Era peggiore, sicuramente no. La cosa indubbia è che ci potevamo permettere un affitto, che avevamo una vasta rete di conoscenze (anche senza disctrict) e che la nostra comunità era formata da persone provenienti da tessuti sociali molto differenti. La nostra prima casa è stata in un cortile di ringhiera. Un contesto popolare di quelli che molti avrebbero etichettato con la parola “degrado”. Che cos'era per noi? Era un contesto ricco di contraddizioni, di grande scambio e solidarietà, spontaneo, senza artifici e retoriche social. L'effetto della rivalutazione di questa zona nel nostro cortile di ringhiera si è fatto sentire immediatamente: fuori gli insolventi, fuori gli affittuari in scadenza. Ovvero fuori le fasce più fragili. Fuori i poveri, pensavamo, che schifezza. Oggi sono passati 6 anni e quelli che devono lasciare la casa siamo noi. Trovarne un'altra in zona è impossibile se non ci si piega a dei prezzi folli. Ed eccoci al dunque, adesso è il nostro turno. Per questo siamo arrabbiati. Pensiamo che il fenomeno NoLo abbia generato esclusione, che sia rivolto ad una fascia molto precisa di cittadini spesso in fuga dai Navigli o dall'Isola. Chi abitava in quartiere, a meno che non possedesse già un immobile, ha avuto ben pochi vantaggi. Pensiamo che il fenomeno NoLo sia stato costruito da chi era in buona fede con superficialità, spesso grande narcisismo e senza un minimo di visione politica, aprendo una comoda autostrada a chi voleva speculare in zona. NoLo, che la leggenda vuole come movimento dal basso, ma da quale basso? Nei fatti ci sembra abbia escluso prima culturalmente, poi fisicamente una larga fetta di persone che abitavano questi luoghi. NoLo per noi è sinonimo di privilegio, una storia da sbandierare di periferia rigenerata dove il degrado viene superato e tutto è alla portata in 15 minuti. Certo, solo per pochi, sempre più pochi. Non si costruisce così un quartiere, non si costruisce così una città. NoLo costa caro scappo a Quarto Oggiaro abbiamo scritto su un muro. NoLo, vieni a farti fottere, su un altro. Fottuti ci hanno già fottuti. Per quanto riguarda la fuga, ancora non sappiamo precisamente quando e dove scapperemo, ma prima di farlo continueremo a sollecitare fino all'ultimo i pensieri tranquilli degli indisturbati Nolers.

Trasformare la città a colpi di zappa, Franco Beccari

Qualche giorno fa, facevamo lezione di yoga sul prato, e all’improvviso è piombato accanto a noi un falco a caccia di lucertole. Succede anche questo tra i palazzi di via Palmanova, da quando esistono gli orti di via Padova. Otto anni fa qui c’erano un deposito di mezzi rotti dell’Atm, qualche roulotte accampata e un brutto giro la notte. Ogni volta che ci ripensiamo ci si allarga il sorriso: neppure nella più rosea delle previsioni, nel febbraio 2014 quando abbiamo cominciato, potevamo pensare che un fazzoletto di terra abbandonato potesse diventare un angolo di paradiso. Oggi agli orti di via Padova ci sono alberi di gelsi, ciliegi, ulivi, piante aromatiche, ortaggi e fiori, abbiamo l’isola del selvatico per ricreare biodiversità, diamo un rifugio agli insetti che stanno scomparendo, ci prendiamo cura di un minuscolo stagno, aiutiamo l’Università Bicocca a studiare le abitudini delle api solitarie, stiamo avviando insieme alla facoltà di agraria dell’Università Statale un progetto di coltivazione idroponica, costruiamo grazie al lavoro dei vecchi artigiani del quartiere bei cassoni per coltivare in sicurezza, facciamo yoga, offriamo lezioni di orticultura, portiamo le nostre piante nelle scuole per insegnare ai bambini a prendersi cura del verde, o li ospitiamo da noi. Quando la pandemia ce lo permette offriamo aperitivi a base delle nostre piante, organizziamo vecchie feste contadine, come i falò di Sant’Antonio, mercatini. Ad agosto, quando la città si svuota, noi ci siamo, con una fetta di anguria per tutti. La socialità ci sta a cuore come la ricerca. Siamo uno dei giardini condivisi di Milano, coltiviamo insieme e insieme decidiamo cosa fare. Prima di cominciare siamo andati fino a New York a incontrare quelli che hanno inventato i community garden, un modo di trasformare le città a colpi di zappa. Bello e faticoso. Ma abbiamo soci davvero straordinari e adesso dopo anni passati a sporcarci le mani con la terra, abbiamo una certa esperienza, e siamo noi a dare una mano a chi vuole percorrere questa strada.

Alessandro Maggioni: se il liberismo da solo ha fallito (anche) nell'urbanistica

Care amiche e amici di SUPER, dopo un po’ di tempo e dopo aver letto i diversi contributi a voi inviati reagisco con piacere alla vostra “Lettera collettiva per Milano”, trovando naturalmente molte assonanze sia con le mie convinzioni personali, sia con le mie riflessioni connesse ai ruoli che rivesto.

Avendo già fatto dichiarazione di adesione piena al vostro documento mi focalizzo dunque su pochi ma a mio avviso significativi punti.

Il primo nodo, da voi bene evidenziato, è quello della lenta ma progressiva e inesorabile (se non si attiveranno azioni a tal riguardo) inaccessibilità di Milano ad ampie fasce di cittadinanza, per il tramite primo della continua crescita della rendita immobiliare. Milano sta passando da una sua riconosciuta e importante struttura interclassista a una regressiva nuova natura classista.

Se si considera, infatti, come dato acquisito quello in cui i costi degli alloggi sono mediamente attestati attorno ai 5.000 €/mq (considerando nuovo e usato), non può che darsi tale situazione. Il fatto è che i redditi dei lavoratori e delle lavoratrici che contribuiscono giorno dopo giorno a fare grande Milano non consentono ai più di avvicinarsi a tale offerta.

Così facendo si darà corpo a un nuovo processo di allontanamento forzoso di ampie fasce di cittadinanza attiva dal tessuto urbano della città consolidata verso un’area metropolitana che offre certamente case a costi minori (e in molti casi anche una miglior qualità di vita), a fronte però della erosione di tempo di vita personale rubato dal pendolarismo quotidiano e un’entropia ecologica (si provino a vedere le vie d’accesso a Milano ogni giorno come sono messe) che smonta facilmente ogni retorica connessa alla sostenibilità.

Così, naturalmente, si arriva al terzo punto focale da voi messo in evidenza: l’incompiuta drammatica della città metropolitana. Se è vero che da un lato vi è una norma che ha smantellato un istituto - quello delle Provincie - prevedendo un aborto in sostituzione delle stesse, è altrettanto vero che, soprattutto per Milano, che è una piccola città affermatasi nella storia grazie alla sua fortissima relazione con il territorio circostante, abdicare a una visione di dolce “egemonia strategica” è una colpa dolosa. Infatti se non ci sarà uno scatto in avanti nel ripensare la prospettiva territoriale e infrastrutturale in una dimensione cooperativa tra capoluogo e hinterland, si procederà verso la strada del tracollo.

Che fare, dunque? Già voi avete detto molto. A quello che avete detto aggiungerei solo alcune semplici idee.

Innanzitutto rilanciare l’edilizia convenzionata e agevolata avendo il coraggio di imbrigliare ancora un poco la rendita fondiaria. Se oggi è vero che, come tutti i corifei ipersviluppisti dicono in ogni occasione, “a Milano si vende tutto a qualsiasi prezzo”, è tempo di tirare le redini al mercato; è tempo di dire che  (anche) nell’urbanistica il liberismo da solo ha fallito. Serve un temprato dirigismo che, per esempio, abbia il coraggio di ridurre un poco  l’edilizia “libera”: basterebbe passare dall’attuale 60% attuale al 50% - riattivando un 10% di edilizia convenzionata ordinaria, ossia una categoria a metà tra i costi esorbitanti del mercato e quelli più regolamentati dell’ERS agevolato - per ampliare l’offerta di case con costi moderati.

A seguire Milano dovrebbe avere la forza di rivendicare un ruolo di innovazione istituzionale, facendosi promotrice di una struttura pubblica di portata strategico-progettuale che miri a governare le grandi trasformazioni nell’area di influenza metropolitana milanese. In questo modo, avendo contezza delle grandi trasformazioni possibili anche al suo intorno e dotandosi della capacità di attrarre alla sfera pubblica ampie fasce di territorio da rigenerare (attraverso un accordo e il supporto dello Stato). In questo modo si potrà progettare uno sviluppo dell’area metropolitana di lungo periodo liberandosi dalla tagliola della rendita e dalle prerogative di profitto del privato, attuando processi di redistribuzione.

Insomma, come abbiamo detto anche nel documento del Consorzio Cooperative Lavoratori, redatto in vista delle elezioni amministrative, Milano dovrà avere il coraggio di uscire dalla narrazione dominante (e narcisistica come ben dite) per tornare a essere quella città vitale e capace di fare spazio a tutti. Altrimenti diventerà uno sterile prodotto buono per influencer e per chi campa di pubblicità.

Gabriele Pasqui: Due (molte) Milano

Due (molte) Milano?

La Lettera collettiva per Milano pone al centro dell’attenzione il nodo cruciale della fase della vita della nostra città che si apre, in questa congiuntura pandemica che purtroppo non vuole chiudersi e a fronte di una nuova fase del governo della città, che si è aperta con le elezioni del 3 ottobre.

Questo nodo, per dirla in modo sbrigativo, è se sia davvero possibile tenere insieme inclusione e innovazione, coesione e competitività.

Solo chi guarda alla città con gli occhi strabici dell’ideologia può negare come Milano sia oggi una città attrattiva, dinamica, io credo anche bella. Una città che si è costruita una narrazione positiva e vincente. Tuttavia, mai come ora Milano è esposta a rischi di polarizzazione sociale e spaziale che la pandemia non ha fatto che amplificare.

Il nodo centrale, a mio avviso, è proprio quello delle cosiddette “periferie”, ossia di quei contesti spaziali e sociali, dentro e soprattutto fuori dal comune capoluogo, che mostrano preoccupanti fenomeni materiali e simbolici.

Fragilità, vulnerabilità, disagio sociale e disuguaglianze non sono uniformemente distribuite nel territorio del comune di Milano, e ancora meno se consideriamo la città metropolitana nel suo insieme. Anche guardando al solo capoluogo, alcune aree, non solo e non sempre quartieri, presentano una più forte concentrazione di problematiche sociali (precarietà lavorativa, povertà relativa e talora assoluta per fasce significative della popolazione, dispersione scolastica e basso livello di formazione, conflitti e percezione di insicurezza, disagio abitativo). In queste aree, le problematiche sociali si accompagnano ad una condizione di deprivazione materiale e di scarsa manutenzione degli alloggi, degli spazi comuni, delle aree e dei servizi pubblici.

Queste aree non sono irrilevanti, né qualitativamente né quantitativamente. In esse vive una quota importante della popolazione del comune di Milano; inoltre, le aree più critiche e deprivate si collocano spesso in prossimità di ambiti significativi di trasformazione e rigenerazione urbana, ma raramente questa vicinanza fisica costituisce un’occasione di rigenerazione allargata.

Milano rischia dunque di diventare quel che non è mai stata: una città a due velocità, attrattiva e dinamica del centro, negli ambiti di rigenerazione diffusa spesso soggetti a fenomeni di gentrificazione, nei nuovi poli di sviluppo legati al recupero di aree dismesse o sottoutilizzate; impoverita e arrabbiata in quartieri e parti di città che si sentono escluse dalle dinamiche virtuose che hanno reso Milano negli ultimi anni una città sicuramente più competitiva.

I dati elettorali confermano questo rischio di polarizzazione, con una periferia sempre più segnata da fenomeni culturali e politici di intolleranza e regressione, in una dinamica di “guerra tra gli ultimi e i penultimi” i cui rischi per la tenuta sociale della città sono evidenti.

Dove sono le periferie? Geografie e visione

Anche considerando il solo comune di Milano (sebbene questo problema sia evidente anche e forse ancora di più alla scala metropolitana), la prima necessità è ricostruire le geografie delle periferie, non dando per scontato che le aree e i quartieri che nel nostro immaginario sono i più critici siano quelli che versano nelle condizioni peggiori.

Si tratta di ridisegnare innanzitutto una geografia attenta delle aree del disagio: non solo quartieri unitari di edilizia residenziale pubblica, su cui in realtà spesso si è già operato in passato, e che talvolta rappresentano contesti ricchi di qualità e opportunità, ma anche zone caratterizzate dalla presenza dominante di edilizia privata in situazioni di degrado (non solo via Padova: si pensi a contesti come quelli di via Imbonati), singole enclave critiche (via Bolla nel contesto per nulla critico del quartiere Gallaratese, via Gola, ..), quartieri di dimensioni più ridotte che non sono stati ancora oggetto di interventi significativi (Mac Mahon-Prealpi, Quinto Romano, ..), terreni “vaghi” prossimi ad aree residenziali caratterizzati da un forte degrado materiale (un esempio: l’area tra via Salomone e la ferrovia).

Questa ricostruzione geografica deve considerare non solo gli elementi di criticità, ma anche le risorse, umane e materiali, che caratterizzano molto spesso questi quartieri e queste aree, e che sono una leva decisiva in una città in cui la società civile e le forze economiche dispongono di risorse straordinarie.

Milano ha bisogno di una visione unitaria di questi problemi. Per costruire questa visione è necessario costruire innanzitutto una narrazione adeguata, lontana dalle logiche allarmistiche e securitarie della destra ma anche capace di non eludere i problemi strutturali.

Una prima mossa, per fare questo, è chiamare le periferie con il loro nome. In questo senso, dal punto di vista comunicativo e simbolico, lo slittamento della nominazione del problema da “periferie” a “quartieri” non è stata a mio avviso efficace.

Proprio perché se ne vedono con chiarezza le criticità, possiamo costruire narrazioni delle periferie che siano anche in grado di riconoscere e mobilitare le risorse, locali e sovralocali, di dare forza ai progetti dal basso, di coinvolgere interessi e opportunità che vengono dall’impresa e dal terzo settore, spesso già in prima linea.

Questa diversa narrazione deve essere in grado di nominare i problemi senza reticenze, ma anche di riconoscere risorse, attori e possibilità, cercando di collocare le aree più critiche in contesti più ampi e di trattarle non in una logica settoriale (la casa, i lavori pubblici, l’urbanistica, i servizi sociali, ..) ma in una prospettiva veramente integrata. 

Un Laboratorio permanente, che coinvolga istituzioni, attori sociali, soggetti della ricerca e urban maker, potrebbe servire proprio ad andare in questa direzione.

Problemi strutturali

Non bisogna farsi troppe illusioni. I problemi delle periferie sono difficili, e anche grandi città europee che sono state capaci di forti innovazioni nelle politiche urbane fanno fatica ad affrontarli.

Per farlo bisogna tenere insieme una politica della casa che sia in grado di rispondere a una domanda abitativa molto diversificata ma soprattutto di garantire l’accesso all’alloggio alle fasce davvero deboli; servizi sociali efficienti e rispondenti a vecchi e nuovi bisogni, scuole che siano inclusive e che diventino veri e propri hub di quartiere, spazi pubblici manutenuti, ma soprattutto possibilità di (buon) lavoro per giovani, donne, soggetti ai margini del mercato del lavoro.

Molte di queste azioni mettono in gioco risorse e strumenti che non sono in capo al Comune, ma che richiedono una forte cooperazione con altre istituzioni, ma anche con attori privati o del terzo settore.

Alcune scelte però possono essere fatte anche dal Comune: una strenua difesa del patrimonio residenziale pubblico, ed anzi un aumento degli alloggi SAP che rispondono a una domanda abitativa a cui le pur interessanti esperienze di housing sociale non sono in grado di rispondere; una politica urbanistica che è in grado di spostare risorse significative dal centro verso le periferie, per esempio attraverso una redistribuzione mirata delle plusvalenze sulle grandi operazioni immobiliari; investimenti significativi nei settori della mobilità sostenibile e della transizione ecologica del patrimonio residenziale (come previsto anche dal PNRR) nelle zone più deprivate e difficili.

Proprio perché si tratta di problemi difficili, è necessario uno sforzo straordinario. Da questo punto di vista, l’esperienza dei cinque anni precedenti ha evidenziato certamente una significativa attenzione al tema: molto è stato fatto, soprattutto in alcuni quartieri (si pensi all’ingente sforzo sul Lorenteggio). Quel che è mancato è da una parte una visione unitaria, dall’altra risorse e strutture dedicate capaci di trattare i problemi in modo unitario e integrato.

È necessario prendere le mosse da una valutazione lucida della pur generosa esperienza della delega alla periferie e della struttura del Piano Quartieri, troppo orientata alle opere pubbliche e troppo poco selettiva, per rilanciare un grande progetto unitario sulle periferie milanesi.

Un progetto con una forte natura sperimentale, che prenda spunto anche dalle esperienze di maggior successo di altre città europee e che si dia il tempo necessario per poter essere giudicato e valutato.

Progetti pilota

Proprio per la natura multidimensionale dei problemi, le periferie hanno bisogno di progetti integrati, che coinvolgano molti settori del Comune e molti attori.

Sarebbe utile identificare dunque un certo numero di progetti pilota, investendo in modo significativo attraverso la convergenza di risorse diverse: alcuni quartieri che fino ad oggi sono stati oggetto di un numero limitato di interventi; altri quartieri molto “visibili”, su cui è stato già fatto molto ma che presentano ancora forti criticità; aree o quartieri in cui prevale l’edilizia privata e dove sono forti le situazioni di disagio e conflitto potenziale; zone “grigie” caratterizzate da forte degrado.

Per questi progetti pilota potrebbero essere prodotti non strumenti urbanistici, ma visioni e piattaforme per progetti e politiche intersettoriali. Queste visioni dovrebbero poi essere realizzate in modo incrementale, attraverso una forte regia pubblica e il coinvolgimento di altri attori privati e del terzo settore. Fondamentale potrebbe anche essere il ruolo svolto dai Municipi nel governo di processi ad elevata complessità che devono vedere coinvolti il Comune e la rete di attori e istituzioni locali.

Come realizzare questi obiettivi ambiziosi? In primo luogo costruendo un lavoro paziente di interazione con molti attori, compresi gli abitanti. Queste politiche non si possono fare senza (o peggio: contro) chi abita le periferie. Processi inclusivi e partecipativi, ma anche una efficace strategia di comunicazione, sono dunque condizioni necessarie di successo.

Inoltre, politiche di questa natura e di questa complessità non possono essere presidiate da un solo assessore, o da un solo settore. Sono necessariamente politiche intersettoriali, trasversali e integrate.

Infine, se il tema delle periferie diventa prioritario, allora il Comune deve investire anche dal punto di vista delle risorse.

In termini finanziari, si tratta di garantire una redistribuzione delle risorse dal centro alle periferie, per esempio sulla grande partita degli ambiti di trasformazione.

La grande quantità di risorse che arriveranno a Milano con il PNRR può essere una fonte ulteriore, anche se la logica del PNRR non è quella dell’integrazione e della territorializzazione delle politiche. L’assunzione delle risorse PNRR sulla transizione ecologica del patrimonio costruito può essere ridefinita nella prospettiva dei progetti pilota di quartiere.

Si tratta di sfide molto difficili, che richiedono coraggio politico, innovazione amministrativa, ma anche una società civile in grado di supportare e sollecitare l’azione pubblica. La piattaforma di riflessione proposta da Super mi sembra andare nella direzione giusta.

 

Dino Barra, La città del sole, amici del Parco Trotter

Condivido il contenuto della lettera. Il limite è che essa si muove - cosa forse inevitabile, o forse no - nel cielo della denuncia, pur indispensabile, circa l'aumento delle diseguaglianze nella "città che non si ferma". Chi lavora nelle periferie (periferie, non quartieri) le cose scritte nella lettera le sa già. E sempre più avverte, con crescente fastidio, la retorica di discorsi che enfatizzano il "bottom up" (espressione terribile) invocando dal "top down" (mamma mia!) soltanto sostegno alle realtà di base, ruoli di coordinamento, eleminazione dei lacci burocratici, e cose così. C'è un po' di verità in questa retorica della partecipazione dal basso che cambia la città, molta ingenuità e anche della falsa coscienza. Intendiamoci: il lavoro svolto dall'associazionismo a vario titolo è prezioso e insostituibile. Va sicuramente incoraggiato e supportato. Ma questa convinzione non dovrebbe farci smarrire consapevolezza circa la fragilità e incompiutezza dei risultati che si possono conseguire con l'attivismo dal basso. Su alcune cose, l'attivismo dal basso non ce la fa, alcune cose non le controlla proprio. Non bisognerebbe delegare troppo a queste realtà di base. Chi lo fa, tende a nascondere le sue responsabilità. Si prenda il tema dell'abitare, del caro affitti e del costo delle case al mq: fai rinascere il cinema Armenia e quel costo si alza, ottieni dopo tante lotte la riqualificazione del Trotter e nelle vie intorno il prezzo delle case cresce. L'impegno collettivo viene capitalizzato dal mercato immobiliare, dal meccanismo "oggettivo" del mercato. Che vuol dire? Non dovevamo fare il cinema? Non dovevamo lottare per riqualificare il Trotter? Non bisognava restaurare tunnel ferroviari degradati per farne gallerie d'arte? Nessuno dice questo, se lo dicessi, butterei alle ortiche i miei 25 anni di impegno civico nell'associazionismo. Bisogna continuare a fare queste cose. E', però, anche arrivato il momento di fare altro: attrezzarci a combattere le conseguenze indesiderate delle nostre azioni. Per fare questo dovremmo metterci molta più immaginazione, impegno, capacità propositiva di quella che finora abbiamo messo. Dovremmo, soprattutto, richiamare alle sue responsabilità l'unico soggetto in grado di fronteggiare con strumenti adeguati i meccanismi di gentrificazione di cui noi stessi, a volte, siamo artefici: il soggetto pubblico, lo Stato, La Regione, l'Amministrazione Comunale, anche l'Amministrazione Comunale. Solo questo tipo di soggetti ha i mezzi per intervenire sull'hardware, dando ruolo e funzione anche alla nostra azione. Se solo lo volesse. Non si partirebbe mica da zero. C'è l'esperienza dell'agenzia Abitare su cui riflettere, c'è l'esperienza delle grandi città europee (non solo Berlino) a cui guardare e, in Italia, la Torino di inizi anni '2000. C'è un progetto europeo del comune di Milano (assessore Rabaiotti) poi non finanziato e da riprendere, che interveniva sul risanamento dei condomìni privati degradati rompendo il dogma di un comune obbligato a intervenire solo e soltanto sull'edilizia pubblica (pur fondamentale). Ci sono interessanti esperienze di abitare equo provenienti dal terzo settore. E ci sono proposte di associazioni di quartiere che potrebbero diventare piattaforme di discussione e piste di lavoro (si veda questo link). 

Abbiamo però un problema: le politiche dell'abitare, quelle che riguardano il degrado dei condomìni popolari pubblici e privati, i processi espulsivi e le difficoltà di accesso al mercato della casa, sono fuori dalle priorità dell'Amministrazione comunale. O mi sbaglio? Qualcosa sulle case popolari, qualche spicchio di canone concordato qua e là, qualche misura e dichiarazione di intenti sulle case per gli studenti. Nient'altro, a me sembra. Nulla che possa servire da calmiere delle tendenze impazzite del mercato immobiliare. Se questo è vero, come fare ad imporre all'attenzione del dibattito pubblico e della politica comunale questo tema? E' su questo che dovremmo forse impegnarci a riflettere, a elaborare risposte, a costruire percorsi. La proposta di un laboratorio di formazione permanente si può fare. In tutta sincerità, a me pare, però, un po' deboluccia. Occorrerebbe da parte dell'associazionismo (a vario titolo) un protagonismo politico più forte e diretto, più propositivo e al tempo stesso maggiormente rivendicativo, con cui sedersi al tavolo di confronto di questo laboratorio. Questo protagonismo, a tutt'oggi, mi pare piuttosto debole. Ma è su questo che misurerei, in questo momento, la bontà delle azioni della mia associazione, e di Super, e dell'entità Nolo, e di tutte le altre realtà impegnate nel rendere più giusta la nostra città.