8 Giugno 2016
Di
Federica Verona

Dal riuso, al pane come si faceva una volta, attraversando gli orti

Calvairate, Molise

Michele Miotto è nato a Nazareth in Etiopia e quando non torna nella sua terra vive a Milano. Ci aspetta davanti al Comitato Inquilini di Molise Calvairate, un presidio importantissimo per quel tratto di territorio, e ci invita a seguirlo verso Piazzale Insubria. Ci sediamo sulla sua panchina preferita e gli chiediamo di raccontarsi, così inizia il suo racconto sul quartiere, sulla sua arte, sulla sua Etiopia, su suo figlio. Sotto il primo sole tiepido della stagione ci dice che in quella piazza si radunano gli ubriaconi, ci dice di un serbo a cui hanno massacrato la famiglia.

Ci racconta che anche lui qualche volta ha passato dei guai, dei brutti guai. Ma la pittura, la sua arte è un mezzo per trasformare le sue angosce in qualcosa di buono. La sua vita è stata segnata da alcuni ricoveri nel reparto di psichiatria, dipingere e scrivere poesie lo riporta alle sue origini Etiopi alla sua terra e lo riporta in un mondo dove in qualche modo trova il suo equilibrio. Con il Comitato Inquilini ha partecipato a dei progetti per abbellire alcuni cortili delle case popolari. “Cortili, arte e follia - Un percorso tra i cortili del Molise-Calvairate per liberare pensieri, energie e relazioni tra gli abitanti attraverso l’incontro con l’arte e il disagio psichico”. Ci fa entrare in uno di questi, si accende una sigaretta e ci racconta della sua impazienza e voglia di tornare a Nazareth della ricerca continua di sè stesso. Lo salutiamo augurandogli buon viaggio e ci dirigiamo verso la Palazzina 7, la seconda tappa del nostro quinto tour.

Ad accoglierci Isabella Inti, la mente e l’anima del progetto Tempo Riuso e Giulia Cantaluppi che collabora attivamente con Isabella insieme a Matteo Persichino. Ci fanno accomodare nella ex “bassa” macelleria, bassa perchè si dice che fino a 10 anni fa il macellaio facesse dei prezzi molto convenienti il sabato. Lo spazio è molto bello e curato, sembra quasi di stare a Berlino, ci diciamo. Invece siamo a Milano.

Ci raccontano che il complesso dove si trovano la P8 e la P7 e le palazzine liberty di Viale Molise era la parte degli uffici di rappresentanza dei mercati generali di Milano. Ma lì c’erano anche le case per i dirigenti. Infatti ancora oggi ci sono delle signore sole che abitano in alloggi di 150 mq. Chiaramente non riusciamo a nascondere l'invidia. Il fronte è su viale Molise ma la parte produttiva si compone in diverse sezioni. Molte parti sono in abbandono (come la parte del macello che è chiusa perchè la legge non consente più il macello in città).

La loro azione, spiega Isabella, è partita dal coinvolgimento di vari soggetti. Hanno innanzitutto organizzato un Bike tour con Sogemi, l’ex macellaio e gli ex dirigenti per ricostruire la storia di quell'area. La geografia dell’Ortomercato è complessa, c’è una stecca dedicata all’ittico, una al floricolo ancora attiva. Gli indiani vanno proprio lì prima di salire sulla 9091 (che peraltro sarà oggetto di uno dei progetti di SUPER) per comperare le rose che poi vendono ogni sera in giro per Milano. Via Lomborso divide il comparto dell’ortofrutta dove oggi esistono progetti di rifacimento, con architetture brutaliste molto belle. Isabella ci racconta che le palazzine sono state bonificate e che l’area si era candidata a Expo. Chissà che non diventi un luogo da sfruttare per il dopo Expo.  Ma cosa ha fatto Temporiuso? Partendo dalle politiche hanno fatto dei progetti pilota. Nel 2012 c’è stato un protocollo di intesa tra loro e il Comune di Milano, che per il progetto si è molto impegnato, insieme al Politecnico per avviare politiche sul riuso temporaneo di spazi in abbandono del territorio comunale. Temporiuso ha poi avviato, di fatto, un percorso con associazioni artisti abitanti per trovare gli spazi non utilizzati, osservarli e mapparli provando a trovarne un potenziale. Arrivando, in maniera partecipata, ad un grande risultato che ha portato ad attivare effettivamente 200 spazi non utilizzati.

La P7 è vicina di casa di Macao che ha occupato la palazzina 5 (la vecchia borsa) dove avvenivano tutte le contrattazioni del cibo. Ma lì ci andremo a sera per l'ultima tappa. A oggi nelle palazzine c’è uno studentato con dei laboratori artigianali al piano terra e c’è una ciclofficina con un piccolo bar a uso interno per le feste che si chiama Fucine Vulcano . L’associazione è nata nel  2013 dall’iniziativa di un gruppo di ragazzi milanesi legati da una passione decennale per la mobilità sostenibile e per l’innovazione progettuale. Percorsi di studio e lavoro dei soci, sono due ingredienti base che hanno portato ad elaborare un progetto sperimentale “La Ciclofficina Digitale” fondata e gestista negli spazi delll’Associazione Culturale Ohibò Kashba, ci raccontano. Ora le Fucine Vulcano riparano biciclette, le salvano e le rimettono in circolazione. Hanno un piccolo locale dove organizzano le feste di compleanno per gli amici e dove mettono i dischi.  Ci dicono vorrebbero uno spazio un po’ più salubre di quello, ma servirebbe un intervento un po’ massiccio sugli spazi, così non si disperano e continuano il loro lavoro per risistemarli come possono.

Salutiamo Isabella, la piccola Marta e Giulia colpiti dal potenziale di uno spazio così bello. Un potenziale incredibile e il piacere di sapere che non è sprecato, anche se molto si potrebbe ancora fare.

Come in ogni tour l’ora del pranzo è fondamentale. Il gruppo così si risposta tornando verso Piazzale Insubria. Una focacceria che sforna focacce e pizze sembra fare al caso nostro. Come sempre non manchiamo di commentare quanto visto la mattina, qualcuno ci saluta e abbandona la comitiva, qualcuno arriva.

Nella prima giornata di vero sole tutti siamo più motivati ad uscire dal ristorante per spostarci verso il laboratorio di Davide Longoni. Uno dei panettieri più interessanti di Milano. Lì ci raggiungono alcuni amici che fanno con noi un piccolo pezzo di tour. Entriamo nel suo laboratorio, dove ad aspettarci ci sono lui e i suoi aiutanti. Ragazzi giovani, che dopo gli studi (un avvocato e un chimico) hanno avuto voglia di imparare un lavoro vero e che Davide ha accolto, prendendola come una occasione anche per il laboratorio stesso di avere al suo interno gente davvero preparata. Longoni ha iniziato la sua storia di panificatore nella provincia milanese, a Carate Brianza, poi ha aperto un negozio con genitori, sempre in Brianza, poi a Monza il primo negozio con la sua socia e compagna e poi nel 2013 sono approdati a Milano, in via Tiraboschi, zona piazzale Libia. Gli chiediamo cosa li abbia spinti a venire a Milano: E’ la città che li ha scelti recependo al meglio il successo commerciale del loro prodotto, il progetto di panificazione, cioè pane di grande formato fatto con farine macinate a pietra e la pasta madre. Per questo hanno aperto poi il negozio in Piazzale Libia, poi col tempo si sono resi conto che col trasporto del pane, il fatto di doverlo lavorare a Monza a e portarlo a Milano era molto scomodo quindi hanno trovato nel contesto ex industriale dove sono oggi un laboratorio di 100 mq che è diventato il loro laboratorio, lo hanno aperto nel 2015. Sicuramente avere negozio e laboratorio in un unico spazio era meglio, ma i costi di un negozio-laboratorio in piazzale Libia erano troppo alti. Il luogo in cui stanno è interessante perchè confina con realtà come Open Dot, uno spazio di makers che in quel giorno non siamo riusciti a visitare perchè impegnati in un evento, ma che torneremo presto a trovare, vicino allo spazio Tertulliano 68. Poco distante il Linear Ciack. Certo sono realtà che non interagiscono con il laboratorio per la diversa natura delle attività che promuovono, ci spiega Davide ma si sta bene e si respira un buon clima.

Il suo pane è fatto come quello di una volta. Ci dice che lui non si è inventato niente, solo che c'è stata una parentesi, a partire dal dopo guerra, in cui l'alimentazione era diventata un consumismo di prodotti in cui l’industria l'ha fatta da padrone anche dal punto di vista degli artigiani, suo padre era panificatore artigianale, ad esempio, ma gli arrivava la stessa materia prima che arrivava ai panifici industriali. La differenza è loro che hanno ricercato già nei primi anni Duemila delle materie prime migliori, lungo filiere differenti: piccoli artigiani che lavorano solo a pietra. Quanto al loro rapporto con gli agricoltori: prendono il grano saraceno e il farro da un'azienda agricola di Lodi, quindi hanno un rapporto con le filiere corte. Dalla Sicilia arrivano i grani siciliani e quindi c'è un ripensamento completo delle materie prime. La pasta madre, ad esempio, era una tecnica abbandonata che sopravviveva solo nelle case e lui è stato uno dei primi che ha ricominciato a farlo in maniera quasi esclusiva. Dopo aver osservato a lungo come si impasta, esserci fatti spiegare tutte le macchine utilizzate per le diverse farine, i tempi di cottura e i modi di impasto, lasciamo i ragazzi del laboratorio lavorare per trasferirci in fila indiana verso gli orti Alessandrini. Notiamo una grande staccionata piena di bigliettini appesi e capiamo che quello è il punto di arrivo o di partenza per i paesi dell’Est Europa. I biglietti servono a chiedere o offrire lavoro. Con una luce bellissima, oltrepassiamo il parco pubblico con dei giochi davvero avveniristici sui quali ci interroghiamo a lungo e arriviamo agli orti per il nostro appuntamento. A differenza degli orti di Missaglia questi sono stati assegnati dal Comune in epoca Abertini. Ce lo spiega il signor Pozzati, il presidente. Sarà l’ora a cui arriviamo, la luce del sole che sta per tramontare e ciò che ci colpisce è la disposizione di queste tutte queste pareti metalliche che riflettono la luce in modo avvolgente e che delimitano orti ordinatissimi e curati, ognuno con una sua propria caratteristica. A prendersene cura una vera e propria comunità che si è costituita negli anni. Un gruppo di anziani che ormai si scambia prodotti coltivati, ricette, o vasetti preparati dalle mogli. Si fa anche la festa degli orti, dove ognuno porta qualcosa. Chiediamo loro se fanno il mercato e se i prodotti li vendono, ma purtroppo non è possibile perchè non possono commercializzare. Quel che fanno è dare la frutta e la verdura a qualche homeless, ma lo fanno di loro spontanea volontà. Pian piano hanno fatto amicizia con alcuni ragazzi stranieri che vengono a prendere la verdura e così hanno imparato a seminare ortaggi che in Italia non esistono consigliati da loro. Prima di avere gli orti assegnati ci racconta che lui e altri amici ortisti andavano a fare gli orti didattici nelle scuole, ma il Comune non li ha mai spinti nel farla diventare un’attività continuativa. Il fatto di avere a disposizione gli orti Alessandrini è per loro una grande occasione di socialità e di vita. Hanno un gatto in comune che gira tra un orto e l’altro inseguito dalle eleganti mogli che preparate a festa portano a lui gli avanzi.

Purtroppo è già tardi e dobbiamo riavviarci verso Macao. Entriamo quando è già buio. Ad accoglierci Alessandro che ci fa entrare in una stanza dove incontriamo Maddalena e Diego, ci dicono che è l’unico posto dove si può parlare perchè da li a poco sarebbe iniziato un soundcheck bello aggressivo. In quei giorni si teneva, tra le altre cose, una residenza di architetti olandesi.

Alessandro ci racconta che l’esperienza è iniziata nel 2012 con l'occupazione di Torre Galfa, che è un grattacielo a due passi dalla Stazione Centrale di proprietà della famiglia Ligresti. Quell'occupazione ha aperto un percorso che dura ancora oggi: in viale Molise 68. Lo spazio in cui li incontriamo lo hanno preso invece a Giugno del 2012 dopo essere stati sgomberati prima da Torre Galfa e poi da Palazzo Citterio. Sono nati concentrandosi molto sul tema dell'attivazione della cittadinanza dal basso per la riappropriazione dei beni comuni cioè di quei beni che erano sostanzialmente in uno stato di abbandono da parte del pubblico o del privato, e che potevano entrare nella disponibilità di gruppi informali di persone che avevano la necessità di svolgere, all'interno degli spazi, delle attività di varia natura: nel loro caso attività di produzione artistica e culturale con un risvolto sempre anche molto strettamente politico. Una volta arrivati in Viale Molise hanno iniziato finalmente a dare corpo alla progettualità che in maniera esponenziale si era già manifestata in Torre Galfa e in un certo senso non era gestibile su quella scala per un tempo illimitato perché era molto molto grande il flusso di partecipazione. Invece in Viale Molise le cose si sono stabilizzate e sono partite una serie di progettualità le tra le più disparate e le più complesse come la produzione di film. Gli chiediamo da quale mondo vengono e Alessandro ci spiega che all'interno di Macao c'è stato fin dall'inizio un gruppo di videomaker che ha usato il video come strumento di comunicazione politica.

Macao poi spazia tra fotografia, teatro, produzione musicale, ricerca, meditazione yoga, c'è un gruppo che fa yoga, ci sono davvero tante cose, e soprattutto ci sono tante richieste nel senso che, ci dicono, se ci fossero altri 4 o 5 Macao a Milano, produrrebbero a pieno ritmo progetti e produzioni esattamente come loro. Ci sottolineano infatti più volte la portata del bisogno collettivo che c'è in questa città rispetto alla possibilità di stare in luoghi che diano possibilità minime di aggregazione sociale. Purtroppo ci sono molte fatiche burocratiche da oltrepassare ogni volta. Così hanno iniziato un ragionamento per capire se nelle maglie del diritto c'era la possibilità di 'stressare' il diritto stesso, per cercare di avere un riconoscimento giuridico pur avendo occupato uno spazio come comunità informale di cittadini. Alessandro ci spiega che quello che loro di Macao non hanno mai accettato, fin dall'inizio, è l'assegnazione diretta dello spazio all'associazione con un presidente e un responsabile legale. Per loro quel tipo di assegnazione non era compatibile con le loro pratiche che non erano pratiche gerarchiche, verticistiche.  A Macao la responsabilità è condivisa e partecipata e orizzontale, esiste una questione di metodo e di modo in cui si fanno le scelte insieme, quindi una serie di questioni su cui hanno basato tutto il loro essere dall'inizio. Per trovare una soluzione hanno aperto un tavolo "spazi" con il Comune di Milano. L'obiettivo era quello di produrre una delibera del Consiglio Comunale che concedesse i luoghi che a Milano non sono a disposizione (in quanto abbandonati) a tutte le comunità informali che si attivassero con una serie di passaggi che avrebbero permesso anche a una comunità informale, senza disponibilità finanziaria, di avviarsi e fare le proprie attività bypassando tutta una serie di questioni che sono molto stringenti a livello normativo. A oggi Macao è un punto di riferimento non solo Milanese ma anche internazionale per le varie realtà che ospita. I lavori di manutenzione li fanno loro, a volte sono molto impegnativi come ad esempio la manutenzione della copertura della sala centrale in vetro. Li ascoltiamo e ci perdiamo in una lunga chiacchierata su Milano, sul suo potenziale non utilizzato, sulle forme di condivisione e sui Bitcoin, sulla voglia di capire meglio un mondo che non conoscevamo.  Facciamo tardi è ora di andare e lasciarli ad organizzare la loro serata. Così saltiamo sul tram e andiamo verso il mercato del Suffragio ad assaggiare la pizza di Longoni.

La serata finisce a vini biologici e commenti su quanto visto e visitato. Come sempre impariamo molto soprattutto grazie alla trasversalità dei nostri tour, in questa fase siamo dei semplici attraversatori che prendono appunti e apprendono dalle cose molto diverse che incontrano. Ci piace lasciarci interrogare dalle realtà che attivano spazi in modi simili con obiettivi diversi oppure attivano spazi in modo diverso con obiettivi simili. E siamo sempre più meravigliati di quanto questa città, negli ultimi anni, abbia prodotto tanto, partendo semplicemente dalla voglia di farlo, spesso senza troppe interlocuzioni e costruendo tasselli importanti dal basso. Ci dispiace solo non riuscire ad incontrare davvero tutti e avere il dono dell'ubiquità. Ma Super è proprio per questo un festival lento.    Fotografie: Diletta Sereni e Federica Verona Testo: Federica Verona